— Sono qui. Avete fame?
La sua voce si perse tra le pietre, senza risposta.
Poi il Leone Gules avanzò fino a lei, infilando la testa sotto la sua mano.
“Alzati” le disse. “Accendi il fuoco. Mangia.”
Lei si alzò, sospirando, e si inginocchiò accanto al focolare. Poi, con le braccia cariche di legna, si fermò bruscamente. Si guardò alle spalle, perché proprio in quella stanza, fra gli altri animali, aveva colto la presenza della Creatura senza nome.
Socchiudendo gli occhi, la cercò negli angoli bui, dietro i pesanti tendaggi. Ma la Creatura era sempre un passo oltre la sua vista, un passo oltre il cerchio della sua attenzione, priva di forma, priva di nome.
Poi le passò nella mente un pensiero, un’idea improvvisa, un ricordo. Posò la legna e corse nella stanza dal soffitto a cupola.
Aprì un grosso codice in pergamena, decorato in foglia d’oro: un antico volume lasciatole da Ogam, contenente storie che risalivano addirittura al terzo Re di Eldwold. Ne scorse rapidamente le pagine, cercando una breve frase che ricordava di avervi letto, e infine la trovò. Si sedette sul pavimento, con in grembo il pesante volume, e lesse in silenzio:
E v’è inoltre quello spaventevole mostro, che attende la propria vittima appostato dietro un cantone oscuro o dietro una soglia buia, nelle ore più tenebrose della notte. Sopravvive alla sua vista soltanto chi sia privo di paura. Gli viene dato il nome di Rommalb, quando si parla di lui, perché pronunciando il suo vero nome se ne evoca la presenza.
Lentamente, sulle labbra le si disegnò un sorriso.
— Blammor — disse a voce alta, rotolandosi questo nome sulla punta della lingua. — Blammor.
E, quando sollevò lo sguardo, finalmente lo vide.
4
Era un’ombra nell’ombra, una nebbia nera più alta di lei, con occhi simili a cerchi di ghiaccio cieco e luccicante.
Lei chiuse il libro e si alzò lentamente in piedi per affrontarlo. Gli toccò la mente e la trovò altrettanto immobile e scura quanto il suo aspetto.
“Dammi il tuo nome” gli chiese.
La voce mentale della creatura assomigliava allo scricchiolio delle foglie secche.
“Blammor.”
“Perché sei venuto a me di tua iniziativa? Molti lottano per nascondere il proprio nome. Ma tu sei venuto senza che ti chiamassi.”
“Se sono venuto, è perché mi hai chiamato” disse il Blammor. “E tu hai uno strano potere, che mi attira e che ti permette di vedermi come sono realmente. Perciò verrò sempre da te, e ti servirò, così come un giorno servirò colui che ti vedrà come realmente sei.”
“E adesso ti vedo come sei?” gli chiese Sybel. “Una nebbia nera, con occhi bianchi come il fuoco, ciechi e insieme capaci di vedere?”
“Questa è una parte di me.”
“Tu mi affascini” disse lei. “Tutti gli uomini, dimmi, ti vedono come ti vedo io? Si parla di te come di una creatura terribile.”
“Gli uomini vedono quel che temono maggiormente.”
“E che cosa desideri da me?”
“Nient’altro” rispose il Blammor. “Solo di non avere paura. Adesso devo lasciarti. Ho del lavoro da compiere.”
Scomparve tra le ombre, che tremarono per un istante al suo passaggio.
Lei si voltò, strofinandosi le braccia intirizzite dal freddo, e sulle labbra le si disegnò un lieve sorriso. Ritornò al focolare e, andando alla fiamma verde che ardeva nel caminetto senza mai spegnersi, vi accese un bastoncino di legno.
Pochi minuti più tardi, anche nel focolare ardeva un bel fuoco, e lei se ne servì per accendere torce e candele con cui rischiarare la gelida stanza, sotto gli occhi vigili del Cigno, del Cinghiale e del Leone.
E in quel momento, tra il canto dei venti invernali, sentì che qualcuno la chiamava dal cancello.
Corrugò leggermente la fronte, sorpresa. Fece per chiamare il Falco Ter, ma poi ricordò che era lontano; perciò prese con sé il Cinghiale Cyrin e una torcia ardente che parve tramutare in fiamma la neve del giardino.
I fiocchi cadevano come grandi, esili ciuffi cristallini che, alla fiamma della torcia, svanivano in un breve istante. Dietro il cancello c’era un uomo incappucciato, avvolto in un pesante mantello, che teneva per le briglia il cavallo.
Lei, senza aprire il cancello, sollevò la torcia per illuminargli il volto, e scorse una massa di capelli color del sole.
— Oh — sospirò.
Aprì, e l’uomo entrò nel giardino.
— Portate il cavallo nella stalla, di fianco alla casa — gli disse. — Avvertirò gli altri di non farvi del male.
— Grazie — rispose Coren.
Il vento sì portò via le parole del Principe del Sirle, come bianche nubi di fiato. Coren si fece dare la torcia; Sybel, quando si girò, vide che aveva le spalle bianche di neve che gli lasciava umide scie sulla schiena.
Pochi minuti più tardi, Coren la raggiunse all’interno della casa. Salutò cortesemente il Leone Gules, nel corridoio, e accennò un inchino all’indirizzo della Gatta Moriah, raggomitolata come un’ombra.
Sybel gli prese il mantello bagnato e lo pose ad asciugare accanto al fuoco; lui si fermò davanti al focolare, come se volesse assorbirne la fiamma, rabbrividendo.
— Dal Sirle a qui, è stata proprio una cavalcata lunga e fredda — disse. — Sybel, qui si gela. Siete stata via?
— No. Sono stata… non so neppure io dove sono stata, ma non credo di essere ritornata del tutto.
Si sedette accanto al focolare, riscaldandosi le mani alla fiamma.
— Perché siete venuto? — gli chiese poi. — Ormai dovreste sapere che Tamlorn è andato a stare con Drede.
— Lo so — rispose lui. — Sono venuto perché mi avete chiamato.
Lei lo fissò, stupita. Coren sorrise; tendeva le mani verso le fiamme e, al calore del fuoco, la sua faccia si stava già arrossando.
— No, non vi ho chiamato — disse lei.
— Eppure vi ho sentita. A volte, nel silenzio della notte, riesco a sentire la voce degli esseri che l’occhio non riesce a scorgere: una voce simile all’eco di un’antica canzone.
“Ho sentito la vostra voce, nei miei sogni, e mi ha detto che eravate sola… Mi ha svegliato, e per questo sono venuto. Vedete, so anch’io cosa si prova a pronunciare un nome in una stanza vuota, e a non avere nessuno che risponda.”
Sybel rimase a bocca aperta, senza parole. Coren si mise a sedere accanto a lei. La Gatta Moriah, senza fretta, si alzò e si accovacciò ai loro piedi, fissando il Principe con i suoi occhi verdi e insondabili. Sybel sospirò.
— Non ho mai sentito discorsi come i vostri — gli disse. — Che cosa siete, voi? In un certo senso siete uno sciocco, eppure conoscete cose che mi lasciano stupita.
Lui annuì, increspando le labbra in un sorriso.
— Il settimo figlio di mio nonno Steth, Signore del Sirle, ha avuto sette figli, e io sono il più giovane. Forse è per questo che sento ciò che raccontano gli alberi con i bisbigli delle loro foglie, al sorgere della luna, o quel che rivelano le spighe di grano che crescono, o gli uccelli al crepuscolo. Ho buone orecchie. Sono riuscito a udire il silenzio delle vostre pareti di marmo anche in mezzo alle rumorose abitazioni del Sirle.
Lei distolse lo sguardo dai suoi occhi e si mise a fissare le fiamme.
— Capisco — disse poi. — Avevo davvero bisogno di qualcuno, ma finora non me ne ero resa conto. Avete fame?
— Sì, ma rimaniamo qui a sedere ancora un poco. Quando mi sarò riscaldato, vi preparerò qualcosa.