— No — le disse — non vi turberò con parole che in questo momento non volete udire da me. Ma se poteste concedermi la vostra amicizia, ve ne sarei molto grato.
Lei lo guardò, rivolgendogli un incerto sorriso.
— Siete venuto questa notte — gli disse — quando avevo bisogno di un po’ di gentilezza. Per quanto avete fatto, sono vostra debitrice.
— Bene.
Si alzò e mise altra legna sul fuoco; la fiamma pallida gli danzò sul viso.
— Sybel — disse — il vostro fuoco ha il colore dei giovani alberi. Vado a preparare qualcosa da mangiare… No, rimanete qui. Fidatevi di me: vado io in cucina. E cercate di dormire un poco, se potete.
Si allontanò senza fare rumore, e altrettanto silenziosamente il Cinghiale Cyrin si sollevò dall’ombra e lo seguì nella cucina.
Cercando qua e là, Coren trovò coltelli, pentole, carne salata, pane e verdura dell’orto. Stava pulendo una cipolla da tagliare a fette, quando il grande Cinghiale disse dietro di lui, con la sua voce dorata:
— Il falco bene addomesticato torna sempre alla mano del padrone.
Per poco, a causa della sorpresa, non gli sfuggì di mano il coltello. Si voltò verso il Cinghiale.
— Mi ero scordato — disse — che il Signore della Saggezza ha la voce per parlare.
Gli occhietti rossi lo fissarono senza battere ciglio.
— Cosa siete disposto a darmi, in cambio di tutta la saggezza del mondo?
— Niente — rispose lui, tornando ad affettare la cipolla. — So che conoscete la risposta a tutte le domande meno una. È proprio quella che mi occorrerebbe adesso.
Il Cinghiale Cyrin sbuffò educatamente.
— Quando il saggio fa una domanda — disse — conosce sempre la risposta.
— E domanda e risposta sono la stessa cosa — concluse Coren per lui.
Buttò in una pentola la cipolla e cominciò a tagliare a fette un pezzo di zucca.
— Voi non vi fidate di me — riprese poi. — Credete che io sia un falco ammaestrato, legato alla politica di Rok. Ma mio fratello non ha niente a che vedere con la mia venuta.
— Quando il Sire di Dorn ricevette in segreto, dalla strega Glower, il mortale incantesimo da lei preparato per i suoi nemici, accanto a lui c’era un’ombra più nera della notte, che gli era indissolubilmente legata.
Per qualche tempo, Coren rimase in silenzio e continuò a tagliare a dadini la zucca. Infine disse:
— Non devo dimostrare a voi di poter amare liberamente, ma a Sybel.
— Nel buio, i suoi occhi vedono chiaro.
— Lo so — disse lui. — Non le ho mai nascosto niente.
— Le radici crescono al buio.
— Certo. — Prese un’altra cipolla e cominciò a pulirla. — Ma io non sono una radice, e i miei pensieri non sono affatto un segreto.
— Il gigante Grof fu colpito all’occhio da una pietra, e quell’occhio si voltò all’interno, in modo che poté guardargli nella mente. Di quel che ci vide, lui morì.
Coren si voltò verso il Cinghiale. Vide che era fermo sulla soglia.
— Se si tratta di un indovinello, ammetto di non sapere la risposta — dichiarò.
Il Cinghiale dalla voce melodiosa parve riflettere per qualche istante.
— Allora ve la darò io — disse poi. — Chiedete a Sybel il nome che ha pronunciato oggi, prima del vostro.
Coren aggrottò la fronte.
— Farò così — promise, cercando il prezzemolo.
Quando portò a Sybel ia minestra e la carne, pane fresco e vino tiepido, la trovò addormentata. Posò i piatti su un tavolino accanto a lei e la chiamò piano per nome. La donna si scosse.
— Oh — disse, drizzando la schiena e soffregandosi le palpebre.
Lui le passò il vino.
— Sono lieto — disse — che abbiate dormito un poco.
— Mi sono riposata. Non ho fatto sogni.
Assaggiò il vino, e sulle gote le ritornò il colore.
— La vostra minestra ha il profumo di quella di Maelga — commentò.
Lui la servì, poi si sedette a mangiare accanto a lei, con una scodella sulle ginocchia.
— Non dovreste lasciar passare tanti giorni senza mangiare — le disse.
— Me ne dimentico. Coren, questa minestra è davvero buona. Non so quale delle due cose mi dia maggior calore: la vostra gentilezza o la vostra minestra.
Lui sorrise.
— Non importa — disse. — Il Cinghiale Cyrin è venuto a parlarmi, mentre ero in cucina.
Sybel inarcò le sopracciglia.
— Davvero? — chiese. — Parla così raramente. E che cosa vi ha detto?
— Mi ha proposto una sorta di indovinello. Poi, quando non ho saputo rispondergli, mi ha detto di chiedervi il nome che avete pronunciato oggi, prima del mio.
— Perché? E la risposta all’indovinello?
— Penso di sì. Che nome era?
Lei rifletté per qualche istante, aggrottando la fronte.
— Oh — disse infine — era il nome del Blammor, ma non vedo come…
S’interruppe, sgranando gli occhi. Poi gridò, incollerita:
— Cyrin!
Alzandosi in piedi, non si accorse che il suo piatto cadeva a terra.
In quell’istante, davanti a loro, comparve il Blammor; attraverso la sua forma di nebbia si poteva scorgere la fiamma verde del focolare. I suoi occhi di ghiaccio si fissarono in quelli di Coren, che impallidì e rimase immobile, senza più riuscire a parlare.
Impercettibile come una nebbia, il Blammor prese ad allargarsi e ad allungarsi, finché si stese su Coren come un’ombra, così vicino alla sua faccia pallida che anch’essa parve costituita di oscurità.
L’uomo emise un grido stridulo, incoerente, e dondolò su se stesso, come se fosse tenuto in piedi da una sorta di vento. Poi Sybel, che si torceva le mani, lo udì bisbigliare:
— Blammor…
Il Blammor fissò Sybel.
“Hai altri ordini?” le chiese, con indifferenza.
Lei, scuotendo la testa, bisbigliò:
— No.
Il Blammor, soddisfatto, si allontanò; Sybel sentì che il fuoco tornava a riscaldarla.
Accanto a lei, il giovane si portava le mani alle tempie. Con le palme, prese a sfregarsi gli occhi, come se volesse cancellare una visione paurosa. Poi scivolò a terra, così all’improvviso che lei non riuscì ad afferrarlo. Si inginocchiò accanto a lui, lo aiutò a sedere.
— Coren…
Lui non rispose.
Affannosamente, Sybel si mise a cercare il vino; e così facendo, al di là del cerchio di luce del fuoco, scorse gli occhi rossi e imperturbabili del Cinghiale Cyrin che l’osservava. Gli inviò nella mente un grido furibondo:
“L’avrei rimandato via io stessa. Non c’era bisogno…”
— Sybel… — chiamò Coren, come se la voce gli uscisse dalle profondità dell’anima. Lei gli prese le mani.
— Sono qui — gli disse.
— Stringimi. Stringimi…
Lei lo abbracciò, tenendolo così stretto da sentirgli il battito del cuore e il rumore ansante del respiro.
— Mi spiace. Mi spiace — continuò a mormorare, e lo baciò come se fosse stato Tamlorn, venuto a lei per farsi consolare.
Poi le venne in mente un particolare, e si affrettò a sciogliersi da lui. Coren protestò debolmente e cercò di afferrarla, ma lei, aggrottando la fronte, gli disse:
— Coren.
Lui aprì gli occhi, uscendo da un sogno.
— Cosa?
— Coren, come conosci il nome del Rommalb?
Lui la guardò senza capire, e lei lo afferrò per i polsi. Infine, Coren rispose:
— Lo conosco.
— Ma come hai fatto?
— Come faccio a sapere quello che so?
Il giovane appoggiò la schiena al focolare e tornò a chiudere gli occhi.
— Come hai fatto, allora?
— Sono stato costretto a ricordarlo.