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— Temo che non sia l’unica cosa morta in questa stanza… — commentò poi.

Toccò il corpo nero e rigido del corvo di Maelga, e si sentì trafiggere da una lampo di paura, più forte e agghiacciante di quanti ne avesse mai conosciuti.

Maelga disse stancamente:

— L’avevo mandato a spiare; questa mattina è entrato in casa e mi è caduto ai piedi, stecchito. Credo che fosse morto ancor prima di mettersi in volo.

Sybel rabbrividì.

— È già freddo — mormorò. — Mi dispiace.

Fissò la forma immobile dell’uccello finché Maelga non la toccò delicatamente, facendola trasalire.

— Sybel, sei stanca. Hai mangiato?

— Mi sono dimenticata. Stavo leggendo.

Fino a quel momento, si era sforzata di tenere dritta la schiena; ora chinò le spalle e, con le mani, si coprì la faccia. Maelga l’abbracciò.

— Bambina mia — pianse — cosa posso fare per te?

— Niente — bisbigliò Sybel. — Niente.

Lasciò ricadere le braccia, sospirando.

— Spero che il Falco Ter sia al sicuro — aggiunse. — Lo chiamerò e gli dirò di ritornare con Tamlorn.

— Ti cucinerò qualcosa. Sei così dimagrita, da quando il ragazzo è partito.

Si avviò verso la cucina, portando con sé il corpo del corvo. Sybel colse la mente del Falco mentre era in volo, scorse la terra passare rapidamente sotto di lui.

“Ter, ritorna da Tamlorn. È pericoloso.”

Per un istante regnò il silenzio, prima che lei tornasse a sentire il cuore pulsante del Falco, il torrente di fuoco che gli scorreva nelle vene. Poi il grande rapace disse.

“No.”

“Ter, ritorna da Tamlorn.”

“Figlia di Ogam, chiedimi qualsiasi altra cosa. Ma adesso devo cercare due occhi, devo far tacere una mente nera.”

“Ter…”

Lo perse all’improvviso, e cercò di riafferrarlo, stupefatta, ma lo perse di nuovo; poi, le fece irruzione nella mente un sussurro forte e implacabile:

“Sybel.”

— No — gridò lei, e la parola cadde senza vita sul bianco marmo del pavimento. — No!

Sedeva sotto la cupola di cristallo, a mezzanotte, e la luna piena la osservava come se fosse stata l’occhio stesso del cielo. Il mondo che si stendeva oltre la cupola era ovattato, silenzioso, nascosto; tutta la montagna era immobile, le stelle erano ferme come cristalli di ghiaccio.

La notte era priva di voci, così come era priva di voce la sua mente: riposava nel cuore di un silenzio che non era disturbato da alcun soffio di vento, da alcun bisbiglio di foglie. Sybel fissava l’oscurità, e i suoi occhi scuri erano immobili come ogni altra cosa che la circondava; ascoltava la quiete della propria mente, in attesa del momento, in attesa che si ripetesse il richiamo che osava penetrare nel cuore del silenzio.

Accanto a lei c’era il Leone Gules: teneva la testa sollevata e i suoi occhi dorati erano fissi nel vuoto, perfettamente immobili, come se non avesse avuto neppure bisogno di respirare.

Dopo qualche tempo, nella stanza si udì un lieve rumore. Girandosi, lei scorse il Cinghiale Cyrin, le cui zanne scintillavano bianche come stelle.

“Rispondi a questa domanda, o Signore della Saggezza” gli disse, e sentì passare nella mente del Cinghiale tutte le domande del mondo. Poi il Cinghiale abbassò la testa, e il riflesso dei suoi rossi occhi svanì.

“È la domanda a cui non so rispondere” disse.

Lei chinò il capo. — Sono stanca — bisbigliò all’oscurità. — Non so cosa fare.

Continuò per qualche tempo a sedere immobile, e di tanto in tanto sentì il richiamo che la allontanava da se stessa, come il lento ritrarsi delle onde al sorgere della luna.

La luce lunare disegnava la sua ombra sul pavimento bianco, accanto alle forme massicce del Cinghiale e del Leone. Infine, Sybel chiuse gli occhi e lanciò il suo richiamo, e, mentre chiamava, sentì giungere dal cancello un grido debole, familiare.

— Sybel — disse Coren, correndo nella notte, sulla neve, verso di lei. — Sybel!

Si afferrò strettamente alle sbarre, come cercando di aprirsi un varco.

— Mi spiace… — disse. — Mi spiace… non ero nel Sirle.

— Ti ho chiamato pochi minuti fa — disse lei, trafelata, mentre gli apriva il cancello quasi bloccato dal gelo. — Come sei venuto, volando?

— Ho tentato di farlo.

Fece entrare il cavallo e si fermò davanti a lei, cercando di scrutare la sua faccia nel buio.

— Che cosa c’è? — le chiese, con ansia. — Sybel, sarei voluto venire tre giorni fa, ma Rok mi aveva mandato a Hilt, a parlare con il Signore Horst di un certo suo piano disperato. Sapevo che eri preoccupata; non riuscivo a dimenticarlo neppure nel sonno, ma sono potuto partire soltanto ieri. Che cosa è successo? Qualcosa a Tamlorn?

Lei sollevò il mento per guardarlo, senza parlare. Poi scosse la testa.

— No. Come sapevi che avevo bisogno di te, prima che io stessa me ne rendessi conto?

— Lo sapevo. Sybel, che cosa è successo? Che cosa posso fare?

— Solo… una piccola cosa.

— Qualsiasi cosa.

— Abbracciami.

Lui lasciò cadere le redini nella neve. Aprì il mantello e l’attirò a sé, richiudendoglielo poi intorno; sul suo petto, vide brillare debolmente la corona di capelli di Sybel.

Lei gli appoggiò la testa sulla spalla, sentì l’odore della pelliccia di cui era foderato il mantello, ascoltò il rumore del suo respiro e il battito del suo cuore. Poi Coren cessò per un attimo di respirare, e lei aprì gli occhi.

— Sybel… tu hai paura.

— Sì.

— Ma…

— Stringimi più forte — disse lei, e Coren rafforzò la stretta. Sybel sentì il cuore del Principe del Sirle battere sotto il suo orecchio, sentì la mano guantata con cui lui le reggeva la nuca. Sospirò, a lungo, lentamente.

— Ti ho fatto venire dal Sirle, per sentirmi stringere così. Solo per questo.

— E io sarei venuto di corsa. Solo per abbracciarti e poi ripartire immediatamente. Ma, Sybel, ci deve essere qualcosa d’altro che posso fare per te.

— No. La tua voce è come la luce del sole: appartiene al mondo degli uomini, non al cupo mondo dei maghi.

La voce di Coren s’impigliò nei suoi capelli.

— Dimmi. Che cosa ti turba?

Lei tacque. Poi sollevò la testa, sospirando, e si sciolse dal suo abbraccio.

— Non volevo fartelo sapere — gli spiegò, infine. — Ma forse è meglio che te lo dica, nel caso mi succedesse qualcosa. Altrimenti, perderesti la pace per scoprirlo.

Lui le prese il volto tra le mani e le chiese, con voce impaziente:

— Sybel, cosa c’è?

— Vieni dentro, vicino al fuoco. Ti spiegherò tutto.

Coren portò il cavallo nella stalla e gli diede la biada, poi entrò nella casa, appese il mantello ad asciugare e si sedette accanto a Sybel. Lei gli porse una tazza di vino caldo e gli disse:

— Qualcuno mi sta chiamando.

Lui la fissò da dietro il bordo della tazza. Poi la posò di scatto e il vino gli finì sulle dita.

— Chi è?

— Se conoscessi il suo nome — rispose lei — forse sarei in grado di oppormi. L’ho cercato dappertutto; ho sorpreso maghi di paesi lontani, bisbigliando parole nella loro mente, e la loro paura mi ha fatto capire che non mi conoscevano.

“Perciò, adesso… non so che cosa fare. Ha catturato il Falco Ter; ho mandato Ter a cercarlo, e lui mi ha rubato il nome di Ter e l’ha legato a sé, con un potere superiore al mio. È molto potente. Non ho mai sentito parlare di un mago potente come lui. Perciò, temo che dovrò cedergli.”

Senza parlare, Coren aggrottò la fronte.

— Non credo — le disse infine — di poterti cedere a lui.

Lei scosse la testa.