— Coren, non ti ho chiamato per questo. Tu non puoi aiutarmi.
— Potrei tentare. Non sono riuscito ad aiutare Norrel, ma cercherò di aiutare te. Resterò con te, e quando il tuo nemico verrà a cercarti, o quando ti recherai da lui, io ti sarò al fianco, e dovrà vedersela con me.
— Coren, non servirebbe a niente. Potresti soltanto morire; oppure la tua mente verrebbe rivolta contro se stessa, e ti scorderesti di me. Il Rommalb era terribile, ma non era malvagio. Il Rommalb era fatto di paura, e tu sei sopravvissuto, ma questo mago, per te, significherebbe la morte.
— Allora, che cosa posso fare? — domandò lui, disperato. — Credi che possa starmene fermo qui, o nel Sirie, docile come un bambino, mentre un pericolo sconosciuto ti minaccia?
— Be’ — rispose Sybel — non voglio vederti morire davanti a me.
— Io, invece, preferirei morire anziché essere svegliato di notte dalla voce impaurita della tua mente, senza sapere dove sei, o cosa ti affligge.
— Non ti ho mai chiesto di venire senza essere chiamato — disse lei. — Non ti ho mai chiesto di ascoltare la voce della mia mente.
— Lo so: e neanche mi hai chiesto di amarti. Però io ti amo, e sono preoccupato, e starò con te anche se non vuoi. È facile chiamare un uomo, ma non è altrettanto facile mandarlo via.
— Sei proprio un vero figlio del Sirle: pensi che qualsiasi minaccia possa essere sgominata da una spada. Un tempo ho creduto che tu fossi saggio, invece sei uno sciocco.
“Quando sei andato a combattere contro Drede nella Piana di Terbrec, cosa impugnavi, un libro di incantesimi? Combatteresti a colpi di spada contro un mago, che con una sola parola potrebbe rivolgere la tua arma contro di te? E quando il mago scioglierà la tua lama, trasformandola in una macchia di metallo fuso ai tuoi piedi, cosa farai?”
Coren strinse le labbra, senza rispondere. Poi, all’improvviso, alzò le spalle.
— È sciocco discutere — disse. — Ma dovrai prendermi di peso e sbattermi fuori, per allontanarmi di qui. Puoi far finta di non vedermi, puoi rifiutarti di darmi da mangiare, ma se ti vedrò lasciare la casa io ti seguirò e farò del mio meglio per uccidere i tuoi nemici.
Lei si alzò. Guardò il giovane con distacco: nelle altre stanze, si udì il debole rumore degli animali che si destavano.
— Ci sarebbe un modo — disse Sybel — per rimandarti nel Sirle, riluttante, ma vivo…
Il Leone Gules, sbadigliando, giunse come un’ombra dalla camera con la cupola di cristallo e girò in cerchio attorno a Coren, strofinandosi inquieto contro di lui. In cucina, la Gatta Moriah si svegliò, mormorò un canto senza parole, dal profondo della gola, e si diresse a passi misurati verso di loro.
Coren, che continuava a fissare gli occhi fermi di Sybel, li vide nuovamente velarsi e udì, nel silenzio della notte, il lento battito di grandi ali che frustavano l’aria. Le pose la mano sul braccio, e vide che lei tornava a fissarlo. Continuò a guardarla senza battere ciglio, mentre il soffio del Cinghiale e il battito delle ali del Drago intessevano una fragile rete di suoni, che fu bruscamente interrotta da un miagolio minaccioso della Gatta. Coren prese allora Sybel per le spalle, come per destarla da un sogno.
— Sybel, stai cercando di spaventarmi? Perché non ti limiti a entrare nella mia mente, come hai fatto quella volta con Drede, e non mi rimandi tranquillamente nel Sirle, dopo avermi tolto i miei ricordi? A una cosa come questa, non potrei oppormi.
Lei lo fissò per un momento, senza rispondere. Poi fece una smorfia e si staccò da lui, mormorando:
— Non posso. Vorrei, ma non posso.
— Cosa farai, allora? Se mi lancerai addosso gli animali, io lotterò; ci faremo del male. Poi ci odieremo per avere permesso che succedesse una cosa simile.
“Sarebbe meglio per tutti e due che mi permettessi di prendermi cura di te. Lascia che tenti di proteggerti. Concedimi questo piccolo favore. Cerca di essere gentile con me.”
Lei lasciò ricadere le braccia. I lunghi capelli le coprivano gli occhi, e lui non poté vedere la sua espressione. Infine Sybel lo fissò.
— Vorrei che te ne andassi — gli disse. — Per il tuo bene, ti legherei al Drago Gyld, e gli ordinerei di portarti nel Sirle, lasciandoti sulla soglia del castello di Rok. Ma se dessi ascolto ai miei desideri, ti vorrei qui con me. Te ne andrai, allora?
— Naturalmente no.
Se la strinse al petto e, sorridendo al Leone Gules, le baciò delicatamente la testa.
Lei mormorò:
— Sono egoista. Ma so una cosa, e te la dico adesso. Quando infine dovrò andare, so già che dovrò andare da sola.
Trascorse la notte senza chiudere occhio, con il Leone Gules ai piedi del letto, la Gatta Moriah sulla soglia della stanza e i grandi, gelidi mondi di fuoco dispiegati silenziosamente sulla sua testa. Continuò a sentire mentalmente l’appello, come una pulsazione continua che attraversava il silenzio, le entrava nei corridoi della mente e scendeva nelle profondità dove lei conservava la fredda, chiara coscienza di se stessa.
La voce si dirigeva inesorabilmente verso quei luoghi profondi, e intanto i suoi poteri si disperdevano e si allontanavano, i suoi pensieri rimanevano inutilizzati e non riuscivano a completarsi.
Infine, in lei rimase soltanto quel richiamo, che rendeva opaca la sua volontà, che la estraniava dalla propria casa come dall’ombra di un sogno. I luoghi segreti della sua mente si spalancarono, indifesi; ogni suo potere fu esaminato e le fu sottratto il suo nome, con tutto ciò che significava: ogni sua esperienza, ogni suo istinto, ogni suo pensiero vennero valutati e imparati.
Sybel si levò in piedi, a un comando che era solo una parola, e si vestì così silenziosamente che non si udì neppure un fruscio. Un grande Leone dorato continuò a dormire ai piedi del letto, illuminato dalla luce lunare; una Gatta nera senza nome continuò a rimanere distesa sulla soglia come fosse stata soltanto un’ombra. Lei li fissò, ma non trovò nella propria mente alcun nome con cui svegliarli, perché i loro nomi erano chiusi come gemme nelle profondità di una montagna, invisibili al suo occhio interiore.
Scavalcò la Gatta dormiente con tanta leggerezza che le sue orecchie non si mossero neppure. Nell’altra stanza, seduto davanti a una fiamma verde, c’era un uomo dai capelli color giallo oro e dagli occhi chiusi. Lei gli passò accanto, silenziosa come un sospiro, e passò accanto al Cinghiale dalle setole argentee che dormiva ai suoi piedi.
Quando la porta si chiuse, si udì un debolissimo scatto metallico e Coren si destò all’improvviso. Si guardò attorno, sbattendo gli occhi. Dal fuoco gli giunse il crepitio di un rametto spezzato dal calore, e il Principe del Sirle tornò ad appoggiarsi allo schienale, sorvegliando la stanza buia dove, custodita dal Leone Gules e dalla Gatta Moriah, dormiva Sybel.
E mentre lui sorvegliava la stanza, Sybel prese il suo cavallo e lo fece uscire silenziosamente sulla neve, fin oltre il cancello. Poi gli montò in groppa, senza sella, e lo guidò lungo il sentiero imbiancato, oltre la casa dove Maelga dormiva, per dirigersi infine verso la cupa città di Mondor, cinta di mura turrite.
6
Sybel giunse a una scala a chiocciola che portava alla cima di un’alta torre, situata sui bastioni settentrionali della città. La spirale dei gradini svaniva nell’ombra, sopra e sotto di lei; l’unica compagnia era la sua stessa ombra, disegnata dalla torcia sugli scalini di pietra consumati.
In cima scorse una porta chiusa, da cui filtrava una cornice di luce. Impugnò il pesante anello di ferro del saliscendi e la aprì.
— Venite, Sybel.
Come fu all’interno, vide che si trovava in una stanza di forma circolare. Sulla sua testa brillava un soffitto dipinto a stelle immobili e luccicanti; alle pareti, leggermente mossi dalla brezza che entrava dalle finestre nascoste, pendevano tendaggi di lino e di lana chiara che raffiguravano scene di antiche leggende, ricamate in fili preziosi.