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— Ceneth — disse stancamente Rok. — Piantala.

— Ma io pensavo di…

— Pensavi? — disse Coren, e la domanda schioccò nell’aria come lo spezzarsi di una lastra di ghiaccio. Ceneth arrossì.

— Va bene — disse. — La pianto. Ma mi chiedo contro chi, esattamente, tu stia combattendo in questa guerra.

Eorth calò pesantemente sul tavolo una delle sue enormi mani.

— Ceneth, piantala — implorò. — Ho già dimenticato una buona metà di quel che Rok ci ha detto. Se vogliamo smetterla di combattere a tavolino per passare al combattimento sul campo, dovete smettere di litigare, tutti.

— Questa è la cosa più saggia che ti abbia mai sentito dire — commentò Bor, con un brontolio.

Sybel tornò a coprirsi gli occhi con le mani.

— Se Tamlorn sarà in pericolo — disse — troverò il modo di farvelo sapere. Ma vi devo avvertire di una cosa. Potrete vedere sul campo di battaglia alcuni animali strani e bellissimi, se vi avvicinerete agli uomini di Drede.

“Non seguite quegli animali. Oh, li conoscete, li avete visti qui, ma nella magia del loro adescamento diventano stranamente affascinanti. Li ho avvertiti di tenersi lontano da voi, ma dovete avvertire anche i vostri uomini, perché non rischino di risvegliarsi, qualche ora o qualche giorno più tardi, perduti in qualche tranquilla foresta.”

Sulla faccia magra e irrequieta di Herne si disegnò improvvisamente un sorriso.

— Cantando di questa guerra, i cantori spezzeranno le corde dell’arpa per secoli a venire.

— Sì — disse Eorth — ma prima voglio sentire di nuovo, con esattezza, cosa succederà fino all’arrivo degli animali.

Rok si riempì la coppa e riprese pazientemente la spiegazione.

Infine il crepuscolo scese sui cento occhi di fuoco che circondavano la casa dei Signori del Sirle. Sybel, lasciata a Rok e agli altri guerrieri la stesura degli ultimi piani di guerra, rimase a fissare dalla sua alta finestra il caotico schieramento dei bivacchi. Poi, con l’addensarsi della notte, giunse finalmente anche Coren. Sybel appoggiò la faccia alle pietre fresche del davanzale e ascoltò i rumori che lui faceva mentre si spogliava. Il fruscio della lana che sfregava sulla lana, il soffio del suo respiro contro la fiamma della candela.

Allora, anche Sybel si svestì e scivolò nel letto accanto a lui. Rimase sveglia, ad ascoltare i sussurri del silenzio, e dal respiro irregolare di Coren capì che anche lui era sveglio. Poi il vento della notte prese ad alitare sopra di loro, e le passò sulla guancia come un dito freddo.

Alla fine anche il respiro di Coren divenne più lento e regolare; ma Sybel rimase sveglia ancora a lungo, osservando alla debole luce della luna il movimento della spalla e del torace di Coren, che salivano e scendevano all’unisono con il suo respiro. Poi si girò dall’altra parte coprendosi gli occhi con la mano, e pensò a Drede, che certamente, nella sua stanza di pietra, non riusciva a prendere sonno e guardava la luce della torcia dilagare sulle pareti. A un certo punto Coren si scosse, interrompendo il filo dei pensieri di lei; poi tornò a respirare tranquillamente e si mosse ancora, emettendo un breve gemito.

In quel momento, nel silenzio delle tenebre, Sybel sentì la presenza di un’ombra sospesa sopra i suoi pensieri, come se qualcuno la stesse segretamente osservando. Si voltò bruscamente verso quell’ombra.

Sopra di lei c’era il Blammor. Non ebbe neppure il tempo di lanciare un grido, prima che gli occhi di cristallo della forma di buio, lontani e distaccati come stelle, incontrassero i suoi. Poi l’oscurità l’inghiottì e Sybel sentì rintoccare attorno a sé, da tutti i lati, il pesante, imperioso battito del proprio cuore.

Le si affacciò alla mente una lunga serie di immagini: da quella di un mago steso a terra, con tutte le ossa spezzate, su ricche e soffici pelli, alla maschera assunta in punto di morte da tutti gli uomini che, nel corso di epoche immemorabili, avevano incontrato per l’ultima volta il cuore dei loro incubi, in qualche stanza senza finestre, tra pareti di pietra senza aperture.

E su di lei, insieme con l’oscurità, venne a gravare anche una cappa di aria umida e pesante, che portava con sé l’odore di pozze di sangue raggrumato, di ferro macchiato e arrugginito; si sentì in bocca il gusto della polvere asciutta e impalpabile, delle foglie secche di alberi morti; udì le ultime, deboli grida che le giungevano, come nere folate di vento, da qualche antico campo di battaglia su cui regnavano solo il dolore, il panico, la disperazione.

A quel punto i pensieri l’abbandonarono per fuggire in qualche piano astrale di terrore che lei non aveva mai conosciuto. Sybel si divincolò ciecamente, cercando di non farsi sommergere.

Ma in qualche punto indeterminabile, sotto gli strati sempre più fitti di paura, le parve che prendesse forma anche una visione bianca come l’occhio del Blammor. Mentre una parte di lei gemeva disperatamente, silenziosamente, perché l’oscurità continuava a salirle intorno come un’onda di marea, da un’altra parte di lei si staccò un pensiero, assottigliato e limato fino a un’insopportabile acutezza di percezione, che si spinse a interrogare quella sagoma indistinta.

La bianca figura si muoveva alla deriva, in fondo alla sua mente; Sybel la cercò come se avesse dovuto inviare un richiamo nei punti più profondi dell’Eldwold, e infine anche quell’immagine cominciò a chiarirsi allo sguardo del suo occhio interiore: divenne quella di un uccello bianco come la luna e dalle lunghe ali fluttuanti… ma le ali erano storte e spezzate, la dolce curva del collo s’interrompeva bruscamente per ripiegarsi su se stessa.

“No!” mormorò Sybel. E poi si trovò sul pavimento, con la guancia contro le pietre, il respiro ansante e rotto dai singhiozzi. Sollevò la testa, e sentì che la fresca aria della notte le asciugava le lacrime.

Tutt’intorno a lei, nell’oscurità, si percepiva ancora la presenza di una Creatura che la sorvegliava, che aspettava.

Sybel si alzò e si accorse di tremare, di essere stanchissima. Guardò Coren, ma le parve di vedere un estraneo, e di abitare in un sogno che non le apparteneva più. Rimase immobile a contemplarlo finché non sentì che aveva smesso di tremare. A quel punto, senza fare rumore, si rivestì.

Percorse il lungo, tortuoso corridoio di pietra. Oltrepassò come un’ombra anche la guardiola delle sentinelle e si trovò al di là del muro interno, sui cui spalti camminavano avanti e indietro gli uomini di guardia.

Si recò subito alla porta del giardino, aprì il cancello, lo spalancò alla luce della luna; le giunsero i mormorii degli animali che aveva risvegliato, che si muovevano verso di lei nell’oscurità della notte.

Per prima scorse la grande sagoma del Leone Gules e tese la mano per accarezzargli la folta criniera.

“Che cosa è successo, Bianca Signora?” le chiese il Leone.

“Ritorno sul Monte Eld. Siete liberi” rispose lei.

“Liberi?”

La Gatta Nera Moriah le sfiorò con i fianchi le gambe. Lei la fissò nella profondità dei suoi occhi verdi.

“Domani potrete fare quello che vorrete” disse Sybel. “Non vi chiedo niente. Siete liberi.”

“E… e tu, Sybel? E Drede?”

“Non posso…” rispose lei. “La sua morte ha un prezzo che non sono disposta a pagare.”

“Sybel” le disse la voce flautata del Cigno “sono davvero libero di tornare a volare nel grigio cielo autunnale? Libero di assaporare il vento che mi sfiora la punta delle ali?”

“Sì.”

“Ma che ne sarà di Tamlorn?”

“Non ti chiedo niente. Niente di niente. Farai quello che vorrai.”

Sybel sfiorò la mente del Drago Gyld e lo trovò sveglio, intento a rivoltare senza fine, nel proprio cervello, lenti pensieri di una caverna dalle pareti umide, situata nelle profondità di una montagna silenziosa, dove un rivoletto di chiara fonte serpeggiava tra monete d’oro e ossa bianche.