“Sei libero” gli disse.
“E Drede? Vuoi che lo uccida per te, prima di lasciarmi libero?” chiese il Drago.
“Non voglio più sentire il suo nome!” gridò Sybel. “Non me ne importa più niente! Che viva o che muoia, che vinca questa guerra o che la perda… non me ne importa! Sei libero.”
“Libero…” mormorarono nella sua mente le varie voci degli animali, come un coro di strumenti musicali all’unisono.
“Libero di sottrarmi all’inverno… libero di correre nel deserto, dorato come il sole, sotto l’occhio brillante del cielo.”
“Libero di volare ai confini del mondo, seguendo il corso del crepuscolo.”
“Libera di farmi grattare dietro le orecchie, nel Deserto Meridionale, dai suoi Re dalle dita grasse. Libera di tendere l’orecchio al bisbigliare di streghe dagli occhi che brillano sotto la luna.”
“Libero di sognare, lontano da ogni disturbo, il più grande tesoro che possa esistere.”
“Libero” disse solo il Cinghiale dalle setole d’argento. E poi: “Rispondi a questo indovinello. Chi ha liberato te?”
Lei lo fissò in quei suoi occhietti rossi.
“Lo sai” disse. “I miei occhi si sono rivolti verso l’interno, e ho guardato dentro di me. Non sono libera. Sono piccola e spaventata, e, mentre fuggo, l’oscurità mi corre alle calcagna e mi spia.”
“Sybel” disse il Cigno Nero “ti porterò sul Monte Eld. Poi volerò a raggiungere i laghi oltre il confine settentrionale dell’Eldwold, stesi come i gioielli sul bel corpo di una regina addormentata.”
“No, ti porterò io” disse il Drago Gyld. “E poi mi dirigerò ancora una volta verso le profondità della montagna, per raggiungere la caverna che tanto mi è cara.”
“Mi porterai tu, allora” disse Sybel, e lo sentì uscire, con passi pesanti, dalla sua caverna artificiale.
Si chinò verso il Leone Gules, lo afferrò per la criniera e lo fissò negli occhi.
— Gules — mormorò, restituendogli il nome, e sentì che la mente del Leone si allontanava dalla sua, lasciando solo il suo ricordo, simile alle suppellettili grigie di una stanza poco illuminata. Lo lasciò libero, e lui si allontanò a grandi e possenti balzi, senza far rumore, per i campi del Sirle.
Poi Sybel si rivolse alla Gatta.
— Moriah.
La grande Gatta scivolò nel buio, nera come un’ombra, ammiccando alla luna con i suoi occhi verdi.
— Cigno Nero — disse, e il Cigno si levò in volo sopra di lei, descrivendo una pigra voluta. La grande campata delle sue ali si disegnò sullo sfondo della luna come una sagoma nera, e allontanandosi s’incurvò fino a diventare una linea meravigliosa e stupefatta, da togliere il fiato a quanti l’avessero vista.
— Cyrin.
Ma, prima di allontanarsi, il Cinghiale dalle zanne bianche come il marmo si fermò per qualche istante accanto a lei.
— Anche il Signore degli Enigmi perse un giorno la chiave dei propri indovinelli — disse con la sua voce profonda e pura come le note di un organo. — Ma poi la ritrovò, quando si guardò in fondo al cuore.
“Addio, Sybel. Il Signore di Dorn corse tre volte attorno alla casa senza porte della strega Enyth, e poi camminò verso la parete, che svanì come se fosse stata un sogno.”
— Addio — mormorò lei. Il Cinghiale uscì dal cancello aperto e si avviò di corsa, lucente come la luna stessa, verso i campi degli uomini addormentati.
Sybel si raddrizzò e chiamò il Falco Ter, che vegliava accanto a Tamlorn, dietro le pareti di pietra di Mondor.
“Ter, sei libero.”
“No.”
“Ter. Sei libero di fare ciò che vuoi, di lasciare Tamlorn o di rimanere con lui, come Falcone del Re. Ma ti chiedo una cosa. Una sola cosa, per amor mio. Non toccare Drede. È mio, e preferisco dimenticarmi di lui.”
“Ma perché, figlia di Ogam? Dov’è finito il tuo trionfo?”
“Se n’è fuggito nella notte. Quando mi sono destata, ero sola e impaurita.”
“Impaurita?”
“Impaurita, Falco senza Paura. Sei libero.”
Pronunciò il suo nome, che si allontanò senza risposta nell’immobilità della notte; poi si voltò verso il Drago dalle verdi ali e gli salì sul dorso.
Insieme, volarono in alto nella notte punteggiata di stelle, al di sopra dei bivacchi di guerra del Sirle e di Mondor, fino a un’alta montagna e a una casa bianca e silenziosa.
Quando vi furono giunti, lei diede per sempre la libertà al Drago, entrò nella casa fredda e vuota di Myk e sprangò le porte dietro di sé.
12
Sette giorni più tardi, il Re di Eldwold risaliva a cavallo, accompagnato dalle sue guardie, il tortuoso sentiero del Monte Eld.
Oltrepassò la casetta di strega di Maelga, dove nel cortile tubavano le tortore e sul consunto palco di corna che decorava l’architrave della porta era appollaiato un corvo nero.
Si fermò infine davanti al cancello chiuso della casa bianca, e fece vagare lo sguardo sul giardino immobile e trascurato, sugli aghi di pino che coprivano il sentiero lastricato di larghe pietre che portava dal cancello alla porta sbarrata. Un alito di vento gli spostò un ciuffo di capelli, facendoglielo finire sugli occhi. Lui lo scostò con la mano e smontò di sella.
— Aspettatemi qui fuori — ordinò alle guardie.
— Sire, è una donna pericolosa…
Si voltò di scatto verso la guardia che aveva parlato e corrugò la fronte.
— A me — disse — non farebbe mai del male. Aspettatemi qui.
— Sì, Sire.
Provò a scuotere le sbarre di ferro, ma vide che il cancello era chiuso a chiave. Lo fissò per un momento, perplesso. Poi incuneò il piede in una lunga fenditura che attraversava il muro, si afferrò a una pietra sporgente e si sollevò a forza di braccia.
Sentì uno strappo: il tessuto della sua nera tunica si era impigliato contro una sporgenza; senza curarsene, si liberò e trovò un’altra presa, poi un’altra ancora, finché le sue dita si chiusero, intorpidite e doloranti, sulla liscia cornice di marmo in cima al muro. Vi montò con una gamba e poi si lasciò cadere sul soffice terreno sottostante.
Si alzò e si spolverò gli abiti. Il vento cadde, e nel giardino tornò a regnare il silenzio. Socchiudendo le palpebre, perplesso, guardò fra le scure ombre del sottobosco, tra i lisci tronchi dei grandi pini illuminati dal sole, ma nessun movimento rispose al suo sguardo. Raggiunse lentamente il sentiero e cercò di aprire la porta. La scosse piano, bussò leggermente. Da dietro il cancello, una delle guardie gli gridò, sperando di dissuaderlo:
— Sire, forse non è qui.
Lui non rispose. Le finestre fissavano ciecamente l’esterno, come occhi senza vita e senza pensiero. Fece qualche passo indietro, mordendosi il labbro, poi raccolse da terra, vicino al sentiero, un sasso levigato. Lo picchiò varie volte contro una delle losanghe di spesso vetro che componevano la finestra: il vetro si incrinò in una ragnatela di mille fili; poi una pioggia di frammenti cadde all’interno della casa. Lui staccò gli ultimi denti di vetro che ancora aderivano al telaio di piombo, poi infilò nell’apertura il braccio, fino al gomito, e cercò la maniglia.
— Sire, fate attenzione!
La finestra si aprì all’improvviso; lui la spalancò del tutto, accostandola alla bianca parete. Dentro, il pulviscolo dell’aria scendeva lentamente verso il pavimento, danzando in uri raggio di sole.
Batté gli occhi per abituarli alla penombra, e tese l’orecchio, ma la stanza era immobile, non si udivano né respiri né passi. Scavalcò il davanzale di marmo e infilò una gamba all’interno.
— Sybel?
La domanda rimase sospesa nella luce del sole, insieme con le particelle di pulviscolo dorate e danzanti. Salì sul davanzale anche con l’altra gamba e poi saltò agilmente sul pavimento.