— Già, per quelle cipolle — disse la vecchia.
Sybel la fissò, senza capire. Poi disse:
— Vecchia, sono stata sotto lo sguardo del vostro focolare mentre voi mi osservavate, e chiunque possegga un simile occhio interiore non può essere uno sciocco. Mi aiuterete?
— Certo, bambina — disse la vecchia. — Come vedi, ti ho lasciato entrare. Quanto alle cipolle… sono quelle che hai nel tuo orto. Mi è tornato in mente l’episodio. Potrò prenderne qualcuna, di tanto in tanto?
— Certamente — disse Sybel.
— Senza cipolle, il brodo non sa di niente. Accomodati. Là, su quella pelle di pecora, accanto al fuoco. Me l’ha regalata un uomo della città, che era stanco della moglie e che desiderava sbarazzarsene — disse la vecchia tornando a sedere sul suo dondolo.
— Gli uomini della città sono molto strani — disse Sybel. — Io non sono molto esperta di amore e di odio, capisco solo l’esistere e il conoscere. Adesso devo imparare ad amare questo bambino.
S’interruppe per qualche istante, corrugando lievemente le sopracciglia. Poi riprese:
— Credo però di volergli già bene. È morbido e delicato, e mi sta bene fra le braccia. Se Coren del Sirle tornasse a riprenderlo, non vorrei più restituirglielo.
— Giustamente — disse la vecchia.
— Perché? — chiese Sybel.
— Perché è il figlio di Drede. Me lo hanno riferito i miei uccelli.
— Coren diceva che era figlio di Norrel.
Le labbra sottili della vecchia si curvarono in un sorriso.
— Ne dubito — disse. — Credo sia figlio del Re Drede. A palazzo reale c’è un corvo che non prende mai sonno.
Sybel la fissò a bocca aperta. Trasse un breve respiro.
— Io non capisco questo genere di cose — ammise. — Ma adesso devo amarlo. È una cosa molto strana. Ho i miei animali da sedici anni, e ho questo bambino da una sola notte; eppure, se dovessi scegliere tra tutti, ho l’impressione che finirei per scegliere il bambino, anche se non è capace di fare niente e non è in grado di capire niente. Forse perché gli animali, se si allontanassero da me, non avrebbero bisogno di nessuno, mentre il mio Tamlorn ha bisogno di tutto. Da me.
La donna la guardò senza parlare, continuando a dondolarsi. Sulle sue dita, le gemme rifrangevano il bagliore del fuoco.
— Sei una strana bambina… così priva di timori e così forte da poter comandare i tuoi grandi e nobili animali. Mi chiedo se non ti senti sola, a volte.
— Per quale motivo? — domandò Sybel. — Ho molti con cui parlare. Mio padre ha sempre parlato poco, e io ho imparato da lui il silenzio: un silenzio della mente che è come l’acqua immobile e chiara, sotto cui non si può nascondere niente. È stata la prima cosa che mi ha insegnato, perché, se non riuscirai a conservare un assoluto silenzio, non sarai mai in grado di udire risposta al tuo richiamo. E ieri notte, quando è arrivato Coren, stavo cercando di chiamare il Liralen.
— Il Liralen… — disse la vecchia, e il suo volto si addolcì, fino ad apparire infinitamente giovane e sognante sotto i ricci spettinati.
— Il Liralen — riprese — dalle ali che sventolano come bandiere, dalle piume color della luna… Oh, bambina, quando riuscirai finalmente a catturarle, fammelo vedere!
— Ve lo farò vedere — promise lei — ma è molto difficile da rintracciare, specialmente quando sono interrotta dall’arrivo di qualcuno che mi porta un bambino. Da piccola, mio padre mi dava del latte di capra, ma credo che a Tamlorn non piaccia.
La vecchia sospirò. — Vorrei poterlo allattare io, ma una mucca ti sarebbe più utile, a meno di non trovare qualche donna della montagna disposta a prenderlo a balia.
— È mio — disse Sybel. — Non voglio che un’altra donna cominci a volergli bene.
— Certo, bambina, certo, ma… A me permetterai di volergli bene, almeno un poco? Da tantissimo tempo non ho più avuto nessun bambino da amare. Ruberò a qualcuno una mucca, e lascerò al suo posto un gioiello.
— Potrei chiamarla io — suggerì Sybel.
— No, bambina. Se qualcuno ruba qualcosa, il ladro devo essere io. Tu devi pensare a te stessa; a quel che succederebbe se la gente cominciasse a pensare che le porti via gli animali.
— Non ho paura della gente — disse Sybel. — La gente è sciocca.
— Sì, bambina, ma riesce a essere molto forte, quando ama e quando odia. Tuo padre, quando parlava con te, ti dava un nome?
— Certo: Sybel. Ma lo sapevate senza bisogno di chiedermelo.
Gli occhi grigi della vecchia si volsero verso di lei.
— Oh, certo. I miei uccelli vanno dappertutto… Ma c’è una certa differenza tra il nome che hai sentito pronunciare da altri e quello che ti è comunicato da chi lo porta. Io mi chiamo Maelga, e come si chiama il bambino? Sei disposta a darmi in dono il suo nome?
Sybel sorrise. — Certo. Sono lieta di darvelo. Si chiama Tamlorn.
Si chinò su di lui, sfiorandogli con i bianchi e lunghi capelli la faccia piccola e tonda.
— Tamlorn. Il mio Tamlorn — mormorò, e Tamlorn rise.
Fu così che Maelga rubò una mucca, lasciando al suo posto un anello con una grossa gemma; per mesi, da quel giorno in poi, la gente lasciò aperta la porta della stalla, speranzosamente. Tamlorn crebbe alto e forte, con i capelli chiari e gli occhi grigi, ridendo e correndo nei corridoi bianchi e silenziosi, giocando con i pazienti animali e dando loro da mangiare.
Passarono gli anni, e lui divenne agile e abbronzato. Esplorò il Monte Eld insieme con i pastorelli che vi abitavano, scalandone la cima coperta di nebbie, cercandone le caverne più profonde, portando a casa volpi rosse, uccelli e rare erbe che servivano a Maelga.
Sybel continuò a cercare il Liralen, chiamandolo durante la notte, sparendo per intere giornate per poi infine ricomparire, tenendo sotto il braccio qualche antico libro adorno di gemme, chiuso da serrature di ferro, che forse conteneva il suo nome.
Dopo quei furti Maelga la sgridava sempre, e lei rispondeva, distrattamente:
— Li rubo a piccoli maghi, che d’altronde non saprebbero come usarli. Io devo avere quel Liralen. È la mia ossessione.
— Un giorno — prevedeva Maelga — offenderai un grande stregone, credendo che si tratti di un maghetto qualsiasi.
— E allora? Anch’io sono una grande maga. E devo assolutamente avere il Liralen.
Una sera, dodici anni dopo la notte in cui Coren le aveva portato Tamlorn, Sybel scese nella caverna fredda e profonda costruita da Myk per il Drago Gyld. Era dietro un rivo di acqua corrente, e gli alberi che la circondavano erano grandi e immobili come le colonne destinate a reggere la cupola di un tempio dedicato al silenzio.
Sybel scese lungo tre grandi rocce fino a raggiungere una cascata, poi vi scivolò dietro, con l’acqua che le scorreva sulla faccia come un velo di lacrime.
All’interno, la caverna era scura e umida come il cuore stesso della montagna: gli occhi verdi di Gyld brillavano come una coppia di smeraldi.
La grande massa del Drago accovacciato era solo un’ombra nel buio, ma Sybel vi si fermò davanti, come una sottile pallida fiamma della notte, e la fissò in quei suoi occhi che non battevano ciglio.
“Sì?” chiese Sybel.
Nella mente del Drago cominciarono ad affacciarsi i primi pensieri, lenti e informi come le scure bolle d’aria che si alzano dal fondo di una palude. Poi, finalmente, lasciarono il posto al crepitio secco, pergamenaceo, della sua voce mentale:
“Sono passati ormai mille anni da quando mi addormentai sull’oro del Principe Sirkel, e ricordo ancora che mi assopii mentre davo un ultimo sguardo ai suoi occhi spalancati e al suo sangue che sgocciolava lentamente da una moneta all’altra, per raccogliersi infine nella cavità di una coppa.”