Più tardi, nello stesso pomeriggio, passammo la vetta, a Eskar, 4560 metri di altezza. Guardando in alto, sul pendio della faccia sud di Kostor, sulla quale avevamo proseguito a strisciare compiendo progressi infinitesimali per tutto il giorno, vidi una strana formazione rocciosa, a mezzo chilometro dalla strada, una sporgenza che sembrava un castello.
— Vedete la Fortezza, lassù? — disse il guidatore.
— Quello è un edificio?
— La Fortezza di Ariskostor.
— Ma nessuno potrebbe vivere lassù.
— Oh, i Vecchi possono. Una volta ero guidatore in una carovana che portava loro il cibo da Erhenrang, nell'estate più inoltrata. Naturalmente non possono né entrare né uscire per dieci o undici mesi all'anno, ma non danno alcuna importanza alla cosa. Ci sono sette od otto Abitanti, lassù.
Guardai attonito in alto, guardai quei pilastri di roccia nuda, solitari nell'immensa solitudine di quell'altezza impervia, e non credetti al guidatore; ma sospesi la mia incredulità. Se una persona, qualsiasi persona poteva sopravvivere in un aere così gelido, doveva trattarsi di un karhidiano.
La strada, discendendo, descriveva un'ampia curva a nord e a sud, costeggiando precipizi, immensi abissi spaventosi, perché il fianco orientale del Kargav è più inaccessibile di quello occidentale, e precipita verso le pianure in ripidi gradini rocciosi, le rozze pietre cadute alla creazione delle montagne. Al tramonto vedemmo una minuscola teoria di punti strisciare, attraversando un'immensa ombra bianca, duemila e più metri sotto di noi: una carovana di corriere che aveva lasciato Erhenrang un giorno prima di noi. Nel pomeriggio del giorno successivo eravamo arrivati laggiù a nostra volta, e stavamo strisciando lungo lo stesso pendio nevoso, molto cautamente, silenziosi, senza quasi respirare, per timore di provocare con il suono qualche valanga. Di là vedemmo per qualche tempo, molto lontano, in basso e oltre di noi, a oriente, vaghe terre immense confuse tra nembi e ombre di nubi e solcate dai nastri d'argento dei fiumi, le Pianure di Rer.
Al tramonto del quarto giorno dalla partenza da Erhenrang, giungemmo a Rer. Tra le due città si stendono millesettecento chilometri, e una parete alta diverse miglia, e due o tremila anni. La carovana si fermò fuori della Porta di Occidente, dove sarebbe stata trasferita su chiatte e avrebbe percorso i canali. Nessuna corriera o auto può entrare in Rer. Era stata costruita prima che i karhidiani usassero dei veicoli a motore, e i karhidiani li usano ormai da più di venti secoli. Non esistono strade a Rer. Ci sono dei passaggi all'interno o sopra, come si preferisce. Le case e le isole e i Focolari si trovano in qualsiasi luogo, caoticamente, in una confusione profusa, prodigiosa, che culmina improvvisamente (come sempre l'anarchia che regola Karhide) nello splendore: le grandi Torri del Palazzo-No, rosso-sangue, senza finestre. Costruite diciassette secoli or sono, quelle torri ospitarono i re di Karhide per mille anni, fino a quando Argaven Harge, primo della sua dinastia, attraversò il Kargav e colonizzò la grande valle della Barriera d'Occidente. Tutti gli edifici di Rer sono fantasticamente massicci, dalle fondamenta profonde, a prova d'acqua e di stagioni. D'inverno il vento delle pianure può tenere sgombera la città dalla neve, ma quando la tormenta viene e la neve si accumula gli abitanti non puliscono le strade, non avendo strade da pulire. Usano le gallerie di pietra, o ne scavano di temporanee sulla neve. Niente delle case, all'infuori del tetto, sporge sopra le gronde o nello stesso tetto, come abbaini. Il Disgelo è il tempo più crudele su quella pianura dai molti fiumi. Allora le gallerie diventano fogne e condutture di alluvioni, e gli spazi tra gli edifici diventano canali o laghi, sui quali la popolazione di Rer si muove a bordo di battelli, per raggiungere i propri lavori o per muoversi soltanto, usando i lunghi remi per allontanare i blocchi di ghiaccio galleggianti, o rompere il ghiaccio sottile là dove ancora c'è il brivido della stagione passata. E sempre, sopra la polvere dell'estate, lo spuntare nevoso dei tetti d'inverno, o le alluvioni di primavera, le rosse Torri si ergono, vuoto, indistruttibile cuore antico della città.
Io presi alloggio in una taverna squallida, dal prezzo esorbitante, acquattata sotto la protezione delle Torri. Mi alzai all'alba dopo molti incubi orrendi, e pagai all'esoso taverniere il letto e la colazione e delle istruzioni inesatte sulla strada che avrei dovuto prendere, e mi misi in cammino, a piedi, alla ricerca di Otherhord, un'antica Fortezza non lontana da Rer. Mi smarrii a cinquanta metri dalla taverna. Tenendo le Torri dietro di me, e l'immenso bagliore bianco del massiccio Kargav alla mia destra, riuscii a uscire dalla città in direzione sud, e il bambino di un contadino, incontrato sulla strada, mi disse da quale parte dovevo girare per raggiungere Otherhord.
Vi arrivai a mezzogiorno. Cioè, arrivai in qualche luogo a mezzogiorno, ma non riuscii a stabilire dove. Era soprattutto una foresta, o un folto bosco; ma gli alberi erano accuditi ancor più accuratamente di quanto non fosse consueto su quel mondo di appassionati, amorevoli custodi delle foreste, e il sentiero procedeva lungo il fianco della collina proprio attraverso gli alberi. Dopo qualche tempo, mi accorsi che c'era una capanna di legno appena fuori del sentiero, alla mia destra, e poi notai un edificio di legno molto ampio, un po' più lontano alla mia sinistra; e da qualche luogo invisibile veniva un delizioso odore di pesce fresco che veniva arrostito.
Proseguii lentamente per il sentiero, provando un certo disagio. Non sapevo quali fossero i sentimenti degli Handdarata per i turisti. Sapevo ben poco su di loro, in realtà. L'Handdara è una religione senza istituzione, senza sacerdoti, senza gerarchia, senza voti, senza credo; ancor oggi non sono in grado di dire se essa abbia un Dio oppure no. È sfuggente. Elusiva. È sempre altrove. La sua unica manifestazione fissa è data dalle Fortezze, ritiri ove la gente può ritirarsi a trascorrere la notte o la vita intera. Io non avrei cercato questo culto così singolarmente intangibile fin nei suoi luoghi segreti, non l'avrei certo fatto, se non avessi voluto rispondere alla domanda lasciata irrisolta dagli Investigatori: Che cosa sono i Profeti, e cosa fanno in realtà?
Ormai mi trovavo in Karhide da più tempo di quanto non vi fossero rimasti gli Investigatori, e dubitavo che ci fosse qualcosa di vero nelle storie dei Profeti e delle loro profezie. Leggende di predizione sono comuni, per tutta la grande Casa dell'Uomo, in tutto l'universo stellato. Gli dei parlano, gli spiriti parlano, i computers parlano. L'ambiguità dell'oracolo o la probabilità statistica offrono degli appigli, e le discrepanze vengono cancellate dalla Fede. Comunque, valeva la pena d'investigare sulle leggende. Non ero ancora riuscito a convincere un solo karhidiano dell'esistenza della comunicazione telepatica; non vi avrebbero creduto senza «vederla»: la mia stessa, precisa posizione, nei confronti dei Profeti dell'Handdara.
Mentre camminavo per il sentiero, mi resi conto che un intero villaggio, o città, era disseminato intorno, all'ombra della foresta inerpicata sul pendio, tutto in maniera disordinata, casuale com'era Rer, ma intimo, pacifico, rurale. Su ogni tetto e su ogni sentiero erano sospesi i rami degli hemmen, l'albero più comune di Inverno, una robusta, tozza conifera dagli aghi fitti, spessi, color rosso pallido. Pigne di hemmen sporcavano i sentieri dalle molte diramazioni, il vento aveva un profumo intenso di resina d'hemmen, e tutte le case erano costruite con il legno scuro di hemmen. Mi fermai alla fine, domandandomi a quale porta avrei dovuto bussare, quando una persona uscì dal folto degli alberi, con passo tranquillo, e mi salutò cortesemente.
— State cercando una dimora? — domandò.
— Sono venuto con una domanda per i Profeti. — Avevo deciso di lasciarmi considerare da loro, almeno all'inizio, un semplice karhidiano. Come gli Investigatori, io non avevo avuto mai alcuna difficoltà nel farmi passare per un nativo, se così volevo; tra tutti i dialetti karhidi, il mio accento non veniva notato, e le mie anomalie sessuali erano nascoste dai pesanti indumenti che indossavo. Mancavo della capigliatura folta e finissima e dell'inclinazione degli occhi, un po' diagonali rispetto al resto del viso, che erano le caratteristiche del tipico getheniano, ed ero più scuro e più alto della maggior parte dei nativi, ma non oltre la portata delle normali variazioni di una razza. La mia barba era stata depilata permanentemente prima della mia partenza da Ollul (allora ancora non sapevamo delle tribù «pelose» di Perunter, che sono non soltanto barbute, ma pelose in tutto il corpo, come i Terrestri Bianchi). Di quando in quando, mi veniva chiesto come avessi potuto rompermi il naso. Io ho un naso piatto; i nasi getheniani sono prominenti e sottili, con narici sottili, perfettamente adattati a respirare dell'aria gelida, a temperatura quasi sempre sotto lo zero. La persona sul sentiero di Otherhord guardò il mio naso con blanda curiosità, e rispose: