Dissi — Sì — Il divertimento era svanito del tutto, con quella parola, permanente, una parola definitiva, se mai ce n'erano.
Dopo cinque giorni mi fu concessa la residenza permanente, in attesa della mia registrazione quale dito della Contea di Mishnory (che io avevo richiesto), e mi furono dati dei documenti provvisori d'identificazione per il viaggio fino a quella città. Avrei sofferto la fame in quei cinque giorni, se il vecchio medico non mi avesse tenuto nell'ospedale. Gli piaceva avere tra i suoi pazienti un Primo Ministro di Karhide, e il Primo Ministro gli fu molto grato.
Lavorai, per arrivare a Mishnory, come scaricatore di corriere, in una carovana partita da Shelt, che trasportava pesce fresco. Un viaggio rapido e pieno di odore di pesce, che terminò nei grandi Mercati di Mishnory Sud, dove ben presto io trovai lavoro nelle celle frigorifere. C'è sempre lavoro in quei luoghi d'estate, con il carico e la confezione e la tenuta e la spedizione dei prodotti deperibili. Ebbi tra le mani principalmente pesce, e alloggiai in un'isola vicina ai Mercati, in compagnia dei miei colleghi delle celle frigorifere; l'Isola del Pesce, la chiamavano; il nostro odore si sentiva dappertutto, e impregnava l'aria e le pareti. Ma il lavoro mi piaceva, perché grazie a esso rimanevo quasi tutto il giorno nel magazzino refrigerato. Mishnory d'estate è un bollente bagno di vapore. Le porte delle colline sono chiuse; il fiume è bollente; gli uomini sudano. Nel mese di Ockre ci furono dieci giorni e dieci notti durante i quali la temperatura non scese sotto i trentadue gradi, e un giorno il calore arrivò a 42 gradi. Costretto a uscire dal mio fresco rifugio greveolente di pesce, e a tuffarmi in quella fornace incandescente, alla fine della mia giornata di lavoro, avevo camminato per un paio di miglia fino al Lungofiume Kunderer, dove ci sono alberi e si può vedere il grande fiume, anche se è impossibile scendere fino a esso. Era diventata un'abitudine. Restavo là pigramente per molto tempo, e ritornavo infine all'Isola del Pesce attraverso la notte rovente, e soffocante. Nella mia parte di Mishnory gli abitanti rompevano le lampade stradali, per mantenere al buio e nelle tenebre le loro azioni. Ma le auto degli Ispettori perlustravano e frugavano incessantemente quelle strade buie, con i fari e con le altre luci, sottraendo ai poveri l'unica intimità che possedevano, quella della notte.
La nuova Legge sulle Registrazioni di Stranieri, promulgata nel mese di Kus, una mossa nel quadro della lotta d'ombre con Karhide, invalidò la mia precedente registrazione e mi fece perdere il lavoro, e passai un mezzo-mese aspettando nelle anticamere di una teoria infinita di Ispettori. I miei compagni di lavoro mi prestarono del denaro e del pesce rubato nei depositi, per farmi mangiare; così riuscii a ottenere una nuova registrazione prima di morire di fame. Ma avevo appreso la lezione. Mi piacevano quegli uomini duri e leali, ma essi vivevano in una trappola dalla quale era impossibile uscire, e io avevo un lavoro da fare tra persone che mi piacevano assai meno. Feci così le chiamate che avevo rimandato per tre mesi.
Il giorno dopo stavo lavando la mia camicia nella lavanderia, che si trovava nel cortile dell'Isola del Pesce, insieme a diversi altri, tutti nudi o seminudi, quando attraverso il vapore e il fetore di pesce e sporcizia e il rumore e lo sciacquio dell'acqua sentii qualcuno chiamarmi, con il nome della mia terra, che nessuno aveva ancora pronunciato in Orgoreyn: e vidi che nella lavanderia c'era il Commensale Yegey, che aveva lo stesso aspetto che gli avevo notato durante il Ricevimento per l'Ambasciatore dell'Arcipelago, tenuto nel Salone delle Cerimonie del Palazzo di Erhenrang, sette mesi prima.
— Venite, venite fuori di qui, Estraven — disse con la voce alta, forte, nasale dei ricchi di Mishnory. — Oh, lasciate perdere quella dannata camicia.
— Non ne ho un'altra.
— Allora tiratela fuori da quella brodaglia e venite. Fa caldo, qui.
Gli altri lo fissarono con acre curiosità, riconoscendo in lui un ricco, ma non sapendo che si trattava di un Commensale. Non mi piaceva che lui fosse venuto qui; avrebbe dovuto mandare qualcuno a cercarmi. Pochissimi Orgota hanno un sia pur minimo senso della decenza. Volevo farlo uscire di là al più presto. La camicia non mi serviva a nulla, bagnata, così dissi a un ragazzo senza focolare che bighellonava nel cortile di conservarla per me, fino a quando non fossi tornato… di conservarla portandola sul suo corpo. I miei debiti e l'affitto erano tutti pagati, e i documenti li tenevo nella tasca dello hieb; senza camicia, lasciai l'isola nei Mercati, e andai con Yegey, per ritornare tra le case dei potenti.
In qualità di suo «segretario», fui registrato per la terza volte nei registri di Orgoreyn, non più come dito, ma come dipendente.
I nomi non servivano, loro dovevano avere delle etichette, e dire il genere prima di vedere la cosa. Ma questa volta l'etichetta era giusta, io ero dipendente, e presto fui indotto a maledire il proposito che mi aveva portato là, a mangiare il pane di un altro uomo. Perché per un mese ancora non mi diedero alcun segno di essere più vicino a raggiungere il proposito di quanto non lo fossi stato nell'Isola del Pesce.
Nel pomeriggio piovoso dell'ultimo giorno dell'estate Yegey mi mandò a chiamare nel suo studio, dove lo trovai intento a conversare con il Commensale del Distretto di Sekeve, Obsle, che io avevo conosciuto quando egli aveva diretto la Commissione Orgota per il Commercio Navale, a Erhenrang. Piccolo e borioso, con dei piccoli occhi triangolari in un viso piatto e grasso, faceva uno strano contrasto con Yegey, tutto delicatezza e ossa. Il gentiluomo e lo scaricatore di porto, sembravano, ma erano qualcosa di più. Erano due dei Trentatré che governavano Orgoreyn; eppure, anche in questo caso, erano qualcosa di più.
Dopo uno scambio di cortesie e un bicchiere d'acquaviva Sithi, Obsle sospirò e mi disse:
— Adesso ditemi perché avete fatto quel che avete fatto a Sassinoth, Estraven, perché se mai c'è stato un uomo che io credevo incapace di errare nello scegliere il tempo di un'azione, o nel soppesare lo shifgrethor, quell'uomo eravate voi.
— La paura è stata più forte della prudenza in me, Commensale.
— Paura di che diavolo? Di che cosa avete paura, Estraven?
— Di quel che sta accadendo ora. La continuazione della lotta di prestigio nella Valle di Sinoth; l'umiliazione di Karhide, la collera che scaturisce dall'umiliazione; l'uso di quella collera da parte del Governo Karhidi.
— L'uso? A quale fine?
Obsle non conosceva le buone maniere; Yegey, delicato e formale, intervenne:
— Commensale, Lord Estraven è mio ospite, e non deve subire un interrogatorio…
— Lord Estraven risponderà alle domande quando e come gli parrà opportuno, come ha sempre fatto — disse Obsle, sorridendo, un ago nascosto in una montagna di grasso. — Lui sa di essere tra amici, qui.
— Prendo i miei amici dove li trovo, Commensale, ma non cerco più di tenerli per molto.
— Lo credo bene. Però possiamo tirare assieme una slitta senza essere kemmeri, come diciamo a Sekeve… eh? Che diavolo, lo so per quale motivo siete stato esiliato, mio caro: perché Karhide vi piaceva più del suo re.
— Direi piuttosto perché il re mi piaceva più di suo cugino.
— O perché Karhide vi piaceva più di Orgoreyn — disse Yegey. — Mi sbaglio, Lord Estraven?
— No, Commensale.
— Voi pensate, allora — disse Obsle, — che Tibe voglia governare Karhide come noi governiamo Orgoreyn… con efficienza?
— Sì. Io penso che Tibe, usando la disputa per la Valle di Sinoth come pungolo, e affilandolo a seconda delle necessità, possa nel giro di un anno operare in Karhide un cambiamento più grande di quello che l'ultimo millennio abbia visto. Egli ha un modello sul quale lavorare, il Sarf. Ed egli sa come giocare sulle paure di Argaven. Questo è più facile che tentare di suscitare il coraggio di Argaven, come ho fatto io. Se Tibe riuscirà nel suo intento, voi signori scoprirete di avere un nemico degno di voi.