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Durante il mese di Kus abitai sulla costa orientale, in un Clan-Focolare chiamato Gorinhering, una casa-città-fortezza-fattoria costruita su una collina, sopra le eterne nebbie dell'Oceano Hodomin. Là vivevano circa cinquecento persone. Se fossi venuto quattromila anni prima, avrei trovato i loro antenati là, nello stesso luogo, nello stesso tipo di casa. Nel corso di questi quattro millenni il motore elettrico era stato inventato e sviluppato, le radio e i telai meccanici e i veicoli a motore e i macchinari agricoli e tutto il resto avevano cominciato a essere usati, e un'Età della Macchina si era messa in movimento, gradualmente, senza nessuna rivoluzione industriale, senza alcuna rivoluzione di alcun genere. Inverno non ha raggiunto in trenta secoli ciò che la Terra ha raggiunto in trenta decadi. Né Inverno ha mai pagato il prezzo che la Terra ha pagato.

Inverno è un mondo nemico; la sua punizione, per chi fa le cose sbagliate è pronta e certa: morte per il freddo, o morte per la fame. Non ci sono margini d'errore, non ci sono ammonimenti o rimproveri. Un uomo può confidare nella sua fortuna, ma una società no; e il cambiamento culturale, come la mutazione casuale, può rendere le cose più azzardate, rischiose; può essere come sfidare la fortuna. Così i getheniani hanno proceduto nella maniera più lenta. In qualsiasi punto della loro storia, un osservatore frettoloso avrebbe potuto dire che tutto il loro progresso tecnologico, e la loro espansione, sono cessati. Eppure non è mai stato così. Non c'è mai stata una fermata, un ristagno. Confrontate il torrente e il ghiacciaio. L'uno e l'altro arrivano là dove stanno andando.

Parlai a lungo con i vecchi di Gorinhering, e anche con i bambini. Era la mia prima possibilità di vedere i bambini getheniani, perché a Erhenrang essi sono tutti nei Focolari e nelle scuole pubbliche e private. Un quarto, o perfino un terzo, della popolazione urbana adulta è impegnata a orario pieno nell'assistenza e nell'educazione dei bambini. In questo luogo, invece, il clan accudiva da solo i propri bambini; nessuno e tutti ne erano responsabili. I bambini erano liberi e vivevano quasi allo stato selvaggio, andavano qua e là, in gruppi, per tutto il territorio, tra quelle colline velate dalla nebbia e per quelle spiagge che la nebbia ingrigiva. Quando riuscii a fermarne uno per il tempo sufficiente a farmi parlare, scoprii che si trattava di bambini ritrosi, schivi, orgogliosi, e con un immenso senso della fiducia.

L'istinto di genitori varia largamente su Gethen come in qualsiasi altro luogo dell'universo. È impossibile generalizzare. Non ho mai visto un karhidiano picchiare un bambino. La loro tenerezza verso i loro figli mi ha colpito, particolarmente perché essa è profonda, autentica, costruttiva, e quasi completamente priva di quel senso di possesso che in genere si associa a questo. Solo in questa assenza di possessività il sentimento differisce, forse, da quello che noi chiamiamo istinto «materno». Sospetto che la distinzione tra l'istinto paterno e materno non si possa neppure tentare, tanto è sottile; l'istinto del genitore, il desiderio di proteggere, di accudire, non è una caratteristica dai precisi legami o vincoli sessuali…

Nei primi giorni di Hakanna apprendemmo, a Gorinhering, attraverso molte scariche di statica, dal Bollettino di Palazzo, che Re Argaven aveva annunciato di essere in attesa di un erede. Non un altro figlio di kemmeri, di questi ne aveva già sette, ma un erede del corpo, un figlio del re. Il re era incinto.

Trovai questo divertente, e così pure gli uomini del clan di Gorinhering, ma per motivi diversi. Dissero che il re era troppo vecchio per portare un figlio, e sull'argomento crebbe una grande ilarità, condita di molte battute salaci, perfino oscene. I vecchi continuarono a ridere e a fare battute pungenti per giorni e giorni. Ridevano del re, ma per il resto non s'interessavano molto a lui. «I Dominii sono Karhide,» aveva detto Estraven, e come tante cose che Estraven mi aveva detto, questa continuava a tornarmi in mente, mano a mano che apprendevo di più su quel grande paese. Quella che apparentemente era una nazione, unificata già da secoli e secoli, era un calderone ribollente di principati, città, villaggi, «pseudo-feudali unità economiche tribali» prive di qualsiasi coordinazione, tutto un ribollire e uno schizzare di individualità vigorose, competenti, litigiose sopra le quali era stato posato leggermente, e senza alcuna sicurezza, un fragile coperchio di autorità. Nulla, lo sapevo, avrebbe mai potuto unire Karhide in una vera nazione. La diffusione totale di apparecchi per comunicazione rapida, che in teoria dovrebbe portare quasi inevitabilmente al nazionalismo, non aveva compiuto questo miracolo. L'Ecumene non poteva rivolgersi a questa gente come ad un'unità sociale, un'entità mobilitabile: doveva piuttosto parlare, al loro senso dell'unità umana. A questo pensiero, fui pervaso da una certa emozione. Naturalmente mi sbagliavo; eppure avevo appreso qualcosa sui getheniani che, a lungo andare, si dimostrò un'utile conoscenza.

A meno che io non volessi trascorrere tutto l'anno nella Vecchia Karhide, dovevo ritornare alla Barriera d'Occidente prima che i passi del Kargav fossero chiusi. Perfino qui, sulla costa, c'erano state due leggere spruzzate di neve, nell'ultimo mese d'estate. Con una certa riluttanza, mi avviai di nuovo verso occidente, e giunsi a Erhenrang nei primi giorni di Gor, il primo mese dell'autunno. Argaven era ormai in ritiro nel palazzo estivo di Warrever, e aveva nominato Pemmer Hage rem ir Tibe suo Reggente durante il periodo di ritiro. Tibe stava già sfruttando al massimo la sua posizione d'autorità. Dopo un paio d'ore dal mio arrivo cominciai a vedere l'errore commesso nella mia analisi di Karhide… era già superata, antiquata… e cominciai anche a sentirmi a disagio, forse perfino in pericolo, a Erhenrang.

Argaven non era sano di mente; la sinistra incoerenza della sua mente incupiva l'umore della sua capitale; egli si nutriva di paura. Tutto il buono del suo regno era stato fatto dai suoi ministri e dal kyorremy. Ma egli non aveva fatto del male, non molto, almeno. Le sue schermaglie con i propri incubi non avevano danneggiato il suo regno. Suo cugino Tibe era un tipo completamente diverso, perché la sua pazzia possedeva una profonda logica. Tibe sapeva quando agire, e come agire. Lui non sapeva soltanto quando fermarsi.

Tibe parlava moltissimo alla radio. Estraven, quando era stato al potere, non l'aveva mai fatto, e la cosa non era di stile karhidiano: il governo karhidi non era uno spettacolo pubblico, normalmente; era coperto, nascosto e indiretto. Tibe, invece, si abbandonava a copiosi sfoghi oratorii. Ascoltando la sua voce in onda rividi quel sorriso dai lunghi denti e il viso mascherato da un reticolato di rughe sottili. I suoi discorsi erano lunghi e roboanti: lodi di Karhide, disprezzo di Orgoreyn, infamia sulle «fazioni sleali», discussioni sulla «integrità delle frontiere del Regno», conferenze di storia e di etica e di economia, tutto in tono cantilenante, graffiante, sovraccarico di emotività che si faceva acutissimo negli accenti di vituperio o di adulazione. Parlava moltissimo di orgoglio per la propria terra, di amore per la patria, ma pochissimo di shifgrethor, di orgoglio o di prestigio personali. Karhide aveva perduto a tal punto il proprio prestigio, nell'affare della Valle di Sinoth, da impedire di sollevare più la questione? No; perché Tibe parlava spesso, spessissimo della Valle di Sinoth. Conclusi che egli stava deliberatamente evitando ogni discorso sul shifgrethor, perché desiderava suscitare delle emozioni di natura più elementare, più incontrollabile. Voleva sollevare, dare vita a qualcosa della quale l'intero disegno del shifgrethor era un'elaborazione, una sublimazione. Voleva che i suoi ascoltatori fossero spaventati, e sdegnati, e in collera. I suoi temi non erano né orgoglio né amore, benché egli usasse perpetuamente quelle parole; come lui le usava, esse significavano autocompiacimento, presunzione e odio. Egli parlava anche molto di Verità, perché, secondo le sue parole, egli stava «andando diritto al cuore che si celava sotto la patina della civiltà».