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Finii in un campo aperto, in piedi, nella sterpaglia secca, accanto a un covone nero, e a una stalla buia. Attraverso squarci tra le nubi che gravavano in alto, apparivano la mezzaluna cupa e sanguigna, e poche stelle pallide. Il vento era freddo e pungente. Accanto a me, una grande stalla, o granaio, era una massa torreggiante nell'oscurità, e in lontananza, oltre quella sagoma nera, vidi piccole scintille volare alte nel vento.

Ero scalzo e a gambe nude, avevo solo la camicia, senza pantaloni, hieb, o soprabito; ma avevo la mia bisaccia. Essa conteneva non solo i miei abiti di ricambio, ma anche i miei rubini, il denaro, i documenti, le carte, e l'ansible, e viaggiando dormivo usandola come cuscino. Evidentemente rimanevo aggrappato ad essa anche durante i brutti sogni. Estrassi le scarpe e i calzoni e il mio hieb invernale di pelliccia, e mi vestii, là nella capagna fredda, buia, nel silenzio, mentre Siuwensin ardeva a mezzo miglio dietro di me. Allora mi mossi, alla ricerca di una strada, e ben presto ne trovai una, e su di essa altre persone. Erano fuggiaschi, come me, ma loro sapevano dove stavano andando. Io li seguii, non avendo alcuna direzione personale da seguire, se non quella che mi portava lontano da Siuwensin; che, così riuscii a capire durante il cammino, era stata colpita da un assalto partito da Passerer, dall'altra parte del ponte.

Gli assalitori avevano colpito, appiccato il fuoco, e se ne erano subito andati; non c'era stato alcuno scontro. Poi, improvvisamente, delle luci brillarono nel buio, davanti a noi, e facendoci frettolosamente sul bordo della strada, osservammo il passaggio di una carovana di corriere, venti grossi automezzi, che venivano a grande velocità da occidente, dirigendosi verso Siuwensin, e ci passò accanto con un lampo luminoso e un sibilo di ruote ripetuto per venti volte; poi silenzio, e di nuovo il buio.

Ben presto giungemmo a un centro agricolo comune, dove venimmo fermati e interrogati. Cercai di restare unito al gruppo che avevo seguito lungo la strada, ma non ebbi fortuna; e non c'era fortuna neppure per loro, se non avevano portato i loro documenti d'identificazione. Loro, e io — un forestiero senza passaporto — fummo isolati dal gruppo, e ci furono forniti quartieri separati per la notte, in un grande capannone, una specie di scantinato assai ampio, di pietra, con una porta chiusa a chiave dall'esterno, e nessuna finestra. Di quando in quando la porta veniva aperta, e un altro profugo veniva spinto all'interno da un poliziotto del centro agricolo, armato di «pistola» sonica getheniana. Chiusa la porta, nel locale regnava il buio più completo; niente luce. Gli occhi, in quell'oscurità fittissima, dopo un poco nel buio vedevano scintille e punticini rossi. L'aria era fredda, e pervasa da un pesante odore di polvere e di grano. Nessuno aveva una torcia portatile; si trattava di gente strappata bruscamente dal suo letto, come me; un paio di persone erano completamente, letteralmente nude, e lungo la strada qualcuno aveva dato loro delle coperte. Non avevano niente. Se avessero dovuto avere qualcosa, avrebbe dovuto trattarsi dei documenti. Meglio essere nudi che sprovvisti di documenti, in Orgoreyn.

Erano seduti, sparpagliati in quelle tenebre cupe, spaziose, polverose. A volte due conversavano per qualche minuto, a voce bassa. Non c'era il senso di comunanza dato dall'essere prigionieri insieme. Non c'era cameratismo. Non c'erano lamentele.

Sentii qualcuno mormorare, alla mia sinistra:

— L'ho visto nella strada, davanti alla mia porta. Gli era scoppiata la testa. Portata via di netto.

— Usano quei fucili che sparano pezzi di metallo. Fucili da assalto.

— Tiena ha detto che non venivano da Passerer, ma dal Dominio di Oword, che sono venuti con dei carri.

— Ma non c'è alcuna lite tra Oword e Siuwensin…

Non capivano; non si lamentavano. Non protestavano per essere rinchiusi in una specie di cantina, dai loro concittadini, dopo essere stati presi di mira a fucilate e scacciati col fuoco dalle loro case. Non cercavano di scoprire alcun motivo per quel che era loro accaduto. I mormoni nel buio, casuali e sommessi, in quel linguaggio Orgota morbido e sinuoso, che fa sembrare al confronto il karhidi come il rumore di sassi sbattuti in una latta vuota, cessò gradualmente, poco a poco. Molti si addormentarono. Un bambino pianse per un poco, lontano, nel buio, gridando al suono dell'eco delle sue grida.

La porta si aprì, ed era giorno, luce del sole che arrivava come la lama di un coltello negli occhi, accecante e angosciosa. Uscii barcollando, dietro gli altri, e li stavo seguendo meccanicamente quando udii il mio nome. Non l'avevo riconosciuto; per prima cosa, in Orgota la «elle» si pronuncia. Qualcuno lo aveva chiamato a intervalli, da quando la porta era stata aperta.

— Da questa parte, prego, signor Ai — disse una persona frettolosa, vestita di rosso, e io non fui più un profugo. Fui separato da quelle persone senza nome con le quali ero fuggito lungo una strada buia, e la cui mancanza d'identità avevo condiviso per tutta la notte in una stanza buia. Avevo un nome, con il quale mi chiamavano, ero conosciuto, e riconosciuto; esistevo. Era un enorme sollievo. Seguii la mia guida quasi con gioia.

L'ufficio della Centralità locale Agricola Commensale era disordinato e frenetico, in preda alla massima agitazione, ma trovarono il tempo di occuparsi di me, e di chiedermi scusa per le scomodità subite nella notte appena trascorsa.

— Se solo non aveste scelto di entrare nella Commensalità a Siuwensin! — si lamentò un grasso Ispettore. — Se almeno aveste preso la strada più consueta!

Non sapevano chi io fossi né perché dovesse essermi concesso un trattamento particolare; la loro ignoranza era evidente, ma non faceva alcuna differenza. Genly Ai, l'Inviato, doveva essere trattato come un ospite importante, di riguardo. Lo era. A metà pomeriggio ero già sulla strada per Mishnory, a bordo di un'auto messa a mia disposizione dalla Centralità Agricola Commensale dell'Est Homsvashom, Ottavo Distretto. Avevo un nuovo passaporto, e un salvacondotto per tutte le Case di Transito che avrei incontrato lungo la strada, e un invito telegrafico nella residenza di Mishnory del Commissario del Primo Distretto Commensale per le Strade d'Accesso e i Porti, il signor Uth Shusgis.

La radio della piccola automobile si accese con il motore, e funzionò mentre l'auto funzionava; così per tutto il pomeriggio, mentre io viaggiavo attraverso le grandi campagne uniformi e piatte dell'Est Orgoreyn, campi di grano senza recinti (perché non ci sono animali da pascolo) e pieni di corsi d'acqua, ascoltai la radio. Mi parlò del tempo, del raccolto, delle condizioni delle strade; mi avvertì di guidare con prudenza; mi diede notizie di diversi generi da tutti e trentatré i Distretti, la produzione di certe fabbriche, le notizie di carico e scarico provenienti da diversi porti marittimi e fluviali; salmodiò alcuni canti Yomesh, e poi ricominciò a parlarmi del tempo. Era tutto molto blando, diluito, tranquillo, dopo la sfrenata propaganda che avevo udito per radio a Erhenrang. Non veniva fatto alcun cenno dell'incursione a Siuwensin; il governo Orgota, evidentemente, intendeva prevenire, e non provocare, l'eccitazione popolare. Un breve bollettino ufficiale, ripetuto di quando in quando, diceva semplicemente che l'ordine era e sarebbe stato mantenuto lungo la Frontiera Orientale. Questo mi piacque; era rassicurante, e per nulla provocatorio, e possedeva la quieta forza che avevo sempre ammirato nei getheniani: l'Ordine sarà mantenuto… Ero lieto, adesso, di essere uscito da Karhide, una terra incoerente spinta in direzione della violenza da un re paranoico e incinto, e da un Reggente egomaniaco. Ero felice di guidare con calma, a una velocità di trentacinque chilometri all'ora, attraverso vasti campi di grano diritti, sotto un quieto cielo grigio e uniforme, verso una capitale il cui governo credeva nell'Ordine.