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Io gli ho detto:

— Questa è Mishnory, e non Erhenrang, ma il pericolo che voi correte è lo stesso. Se non riuscite a convincere Obsle o Yegey a permettervi di stabilire un contatto radio con la vostra nave, in modo che le persone a bordo possano, restandosene al sicuro, dare qualche sostegno alle vostre affermazioni, allora io penso che dovreste usare il vostro strumento, l'ansible, e fare scendere immediatamente la nave. Il rischio che essa correrà è minore del rischio che voi state correndo ora, da solo.

— Le discussioni dei Commensali riguardanti i miei messaggi sono state tenute segrete. Come mai siete a conoscenza delle mie «affermazioni», signor Harth?

— Perché ho fatto del saperlo la ragione della mia vita…

— Ma non è affar vostro qui, signore. La decisione tocca ai Commensali di Orgoreyn.

— Vi dico che la vostra vita è in pericolo, signor Ai — gli ho detto, e a questo lui non ha dato risposta, e io me ne sono andato.

Avrei dovuto parlargli già da alcuni giorni. Ora è troppo tardi. La paura rovina la sua missione e la mia speranza, ancora una volta, dopo tanto costruire. Non la paura dell'ignoto, dell'alieno, dell'estraneo, no, non qui. Questi Orgota non hanno l'intelligenza, o la misura di spirito, per temere quel che è veramente e immensamente strano e ignoto. Non riescono neppure a capirlo, o a vederlo. Loro guardano l'uomo venuto da un altro mondo, e che cosa vedono? una spia di Karhide, un pervertito, un agente, una misera, piccola Unità politica come loro.

Se lui non manda a chiamare la sua nave subito, sarà troppo tardi; forse è già troppo tardi.

È colpa mia. Non ho fatto niente di giusto.

CAPITOLO DODICESIMO

Del tempo e delle tenebre

Da I Detti di Tuhulme il Grande Sacerdote, un libro del Canone Yomesh, composto in Nord Orgoreyn circa 900 anni fa.

Meshe è il Centro del Tempo. Quel momento della sua vita in cui egli vide chiaramente tutte le cose venne quando egli aveva vissuto in terra trenta anni, e dopo di questo egli visse in terra trenta anni ancora, così che la Visione cadde al centro della sua vita. E tutte le epoche fino alla Visione furono lunghe quanto le epoche che verranno dopo la Visione, che cadde così al Centro del Tempo. E nel Centro non c'è tempo passato e non c'è futuro. In tutto il tempo passato esso È. In tutto il tempo a venire esso È. Non è stato né sarà ancora. Esso È. È tutto.

Nulla è invisibile.

Nulla è celato.

Il povero di Sheney venne da Meshe lamentando che egli non aveva cibo da dare al figlio della sua carne, né grano da mietere, poiché le piogge avevano fatto marcire il seme nella terra, e tutta la gente del suo focolare moriva di fame. Meshe disse: — Vai a scavare nei campi pietrosi di Tuerresh, e là troverai un tesoro d'argento e di pietre preziose; perché io vedo un re seppellirlo là, diecimila anni fa, quando un re vicino ha scatenato una faida contro di lui.

Il povero di Sheney scavò dunque nelle morene di Tuerresh e disseppellì là dove Meshe gli indicava un grande cumulo di antichi gioielli, e a questa visione egli gridò a gran voce di gioia. Ma Meshe, vicino a lui, pianse a quella vista, dicendo: — Io vedo un uomo uccidere il suo fratello di focolare per una di queste pietre intagliate. Questo avviene a diecimila anni da oggi, e le ossa dell'uomo assassinato giaceranno in questa fossa dove si trova il tesoro. O uomo di Sheney, io so anche dov'è la tua tomba; in essa ti vedo disteso.

La vita di ogni uomo è il Centro del Tempo, perché tutti sono stati visti nella visione di Meshe, e sono nei suoi Occhi. Noi siamo le pupille del suo Occhio. Le nostre opere sono la sua Visione; il nostro essere è il suo Sapere.

Un albero di hemmen nel cuore della Foresta di Ornen, che si stende per cento miglia di lunghezza e cento miglia di ampiezza, era antico e grandemente cresciuto, con cento rami e su ogni ramo mille ramoscelli e su ogni ramoscello cento foglie. L'albero disse nel profondo delle sue radici: «Tutte le mie foglie si vedono, meno una, questa nell'oscurità gettata dalle altre. Questa foglia la tengo segreta per me. Chi la vedrà nelle tenebre delle mie foglie? e chi potrà contarne il numero?»

Meshe passò attraverso la Foresta di Ornen, nei suoi vagabondaggi e nelle sue peregrinazioni, e da quell'albero colse quella foglia.

Non c'è goccia di pioggia che cada nelle tempeste dell'autunno che sia caduta mai prima, e la pioggia è caduta, e cade, e cadrà per tutti gli autunni degli anni. Meshe vide ogni goccia, dove cadde, e cade, e cadrà.

Nell'occhio di Meshe ci sono le stelle, e le tenebre tra le stelle; e tutte sono chiare.

Nel rispondere alla Domanda del Lord di Shorth, nel momento della Visione, Meshe vide tutto il cielo come se fosse stato tutto un sole. Sopra la terra e sotto la terra tutta la sfera del cielo era chiara come la superficie del sole, e non c'erano tenebre. Perché egli non vide quel che fu, né quel che sarà, ma ciò che è. Le stelle che fuggono e portano via la loro luce, tutte erano presenti nel suo occhio, e tutta la loro luce continuava a brillare in quel momento.

Le tenebre esistono solo nell'occhio mortale, che pensa di vedere, ma non vede. Nella Visione di Meshe non ci sono tenebre.

Perciò coloro che chiamano le tenebre sono stupidi agli occhi di Meshe, e vengono sputati dalla bocca di Meshe, perché essi chiamano quel che non è, chiamandolo Sorgente e Fine.

Non c'è né sorgente né fine, perché tutte le cose sono al Centro del Tempo. Come tutte le stelle possono essere riflesse in una goccia di pioggia rotonda che cade nella notte: così pure tutte le stelle riflettono la goccia di pioggia. Non esistono né tenebre né morte, perché tutte le cose sono, nella luce del Momento, e la loro fine e il loro principio sono uno.

Un centro, una visione, una legge, una luce. Guardate ora nell'Occhio di Meshe!

CAPITOLO TREDICESIMO

Caduta nella fattoria

Allarmato dall'improvvisa riapparizione di Estraven, dalla sua familiarità con i miei affari, e dalla fiera urgenza dei suoi ammonimenti, chiamai un tassi e andai direttamente all'isola di Obsle, intendendo chiedere al Commensale come mai Estraven sapesse tanto e perché fosse spuntato improvvisamente dal nulla, esortandomi a fare esattamente quel che Obsle, ieri, mi aveva consigliato di non fare. Il Commensale era fuori, il portiere non sapeva dove fosse né quando sarebbe rientrato. Andai nella casa di Yegey, senza migliore fortuna. Una nevicata fitta, la più fitta dell'autunno, fino a ora, stava cadendo; il mio autista rifiutò di accompagnarmi più lontano dalla casa di Shusgis, poiché non aveva le gomme da neve. Quella sera non riuscii a raggiungere Obsle, Yegey, o Slose, per telefono.

A cena Shusgis diede la spiegazione: una festività Yomesh si stava svolgendo, la Solennità dei Santi e dei Reggitori del Trono, e gli alti funzionari della Commensalità dovevano essere visti nei diversi templi. Mi spiegò anche il comportamento di Estraven, con abbastanza acume, quale il comportamento di un uomo che un tempo era stato potente e che ora era caduto, un uomo che si aggrappa a ogni occasione per influenzare persone o eventi… sempre meno razionalmente, e più disperatamente, mano a mano che il tempo passa e che egli si accorge di affondare nell'anonimato e nell'impotenza. Ammisi che questo avrebbe spiegato i modi ansiosi, quasi frenetici di Estraven. La sua ansia mi aveva comunque influenzato. Mi sentii vagamente inquieto, per tutta la durata di quel pasto lungo e pesante.

Shusgis non finiva mai di parlare, a me e ai molti dipendenti e ai molti aiutanti e ai molti adulatori che sedevano ogni sera intorno al suo tavolo; non l'avevo mai visto così discorsivo, così gioviale e inarrestabile. Quando la cena fu finita, era già troppo tardi per uscire di nuovo, e in ogni caso la Solennità avrebbe tenuto occupati tutti i Commensali, mi disse Shusgis, fin dopo mezzanotte. Decisi di rinunciare all'ultimo pasto della serata, e di andare a letto presto. In un certo momento, tra mezzanotte e l'alba, venni svegliato da alcuni sconosciuti, informato di essere in arresto, e scortato da guardie armate nella Prigione di Kundershaden.