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Kundershaden è antico, uno dei pochissimi edifici antichi rimasti a Mishnory. L'avevo notato spesso, nei miei giri per la città, un edificio lungo, fosco, dalle molte torrette e dall'aspetto malato e sinistro, che si ergeva massiccio sullo sfondo pallido degli edifici Commensali. È quello che sembra e come viene chiamato. È una prigione. Non è un fronte per qualcosa d'altro, non è una facciata, non è uno pseudonimo. È reale, la cosa reale, la cosa dietro le parole.

Le guardie, un gruppo di uomini tarchiati, solidi, cupi mi scortarono attraverso i lunghi corridoi, e mi lasciarono, solo in una piccola stanza, molto sporca e immersa in una luce vivida. Dopo pochi minuti un altro gruppo di guardie entrò, scortando un uomo dal viso affilato e dall'aria autorevole. L'uomo mandò via tutti, all'infuori di due. Gli chiesi se mi fosse concesso di avvertire il Commensale Obsle.

— Il Commensale è a conoscenza del vostro arresto.

Io dissi:

— È a conoscenza di che cosa? — E fu una domanda molto stupida.

— I miei superiori agiscono, naturalmente, per ordine dei Trentatré. Ora verrete sottoposto all'interrogatorio.

Le guardie mi afferrarono le braccia. Opposi resistenza, dicendo, sdegnato e furibondo:

— Sono disposto a rispondere a tutte le vostre domande, potete fare a meno di questa intimidazione!

L'uomo dal viso affilato non prestò alcuna attenzione alle mie parole, ma chiamò anche un'altra guardia. I tre mi legarono con delle cinghie a un tavolo rovesciabile, mi spogliarono, e mi iniettarono quella che, suppongo, fosse una droga della verità.

Non so per quanto tempo durasse l'interrogatorio, né quanto fossero gli argomenti, poiché rimasi drogato per tutto il tempo, e non ricordo affatto i particolari. Quando ritornai in me, non avevo idea del tempo trascorso dal mio confinamento a Kundershaden: quattro o cinque giorni, a giudicare dalla mia condizione fisica, ma non ne ero sicuro. Per qualche tempo, dopo il risveglio, non seppi quale giorno del mese fosse, né quale mese, e in effetti arrivai a comprendere ciò che mi circondava solo con estrema lentezza.

Mi trovavo in una corriera, molto simile a quella della carovana di camion con rimorchio che mi aveva portato attraverso il Kargav fino a Rer, ma ero nel rimorchio, non nella cabina di guida. C'erano venti o trenta altre persone con me, era difficile dire quante fossero, poiché non c'erano finestrini e la luce entrava solo da una fessura nella portiera posteriore, una feritoia chiusa da quattro solide grate di rete metallica. Eravamo già in viaggio da qualche tempo, al momento del mio risveglio, poiché il posto di ogni persona era più o meno definito, e il fetore degli escrementi, del vomito, e del sudore aveva già raggiunto un livello stabile, che non veniva superato né decresceva. Nessuno conosceva nessuno degli altri. Nessuno sapeva dove venissero portati. C'erano pochissime conversazioni. Era la seconda volta che io venivo rinchiuso al buio con persone che non si lamentavano e non sapevano, gente di Orgoreyn. Ora riconoscevo il segno che mi era stato dato, la prima notte trascorsa in Orgoreyn, in questo strano paese. Avevo ignorato quell'oscuro scantinato ed ero andato a cercare la sostanza di Orgoreyn sopra il terreno, nella luce del sole. Non dovevo meravigliarmi, se niente mi era sembrato reale.

Sentivo che il camion stava andando a est, e non riuscii a sottrarmi all'impressione anche quando diventò evidente che esso andava a ovest, addentrandosi sempre di più in Orgoreyn. Le percezioni parasensoriali magnetiche e direzionali sono completamente sbagliate, a volte del tutto capovolte, su altri pianeti; quando l'intelletto non vuole o non può compensare questa erroneità, il risultato è un profondo stordimento, la sensazione che tutto, letteralmente, si sia dissociato.

Uno degli occupanti del camion morì quella notte. Era stato colpito all'addome, con una mazza o a calci, e morì di emorragia, dall'ano e dalla bocca. Nessuno fece qualcosa per lui; non c'era niente da fare. Un recipiente plastico, pieno di acqua, era stato gettato in mezzo a noi qualche ora prima, ma da tempo era già stato prosciugato. L'uomo era il mio vicino di destra, e io presi la sua testa sulle ginocchia, per dargli un po' di sollievo e farlo respirare; e l'uomo morì così. Eravamo tutti nudi, ma da quel momento in poi io indossai il suo sangue come indumento, sulle gambe e sulle cosce e sulle mani: un indumento secco, rigido, brunito, che non dava calore.

La notte si fece sempre più gelida e pungente, e fummo costretti ad avvicinarci gli uni agli altri, per trovare un po' di calore. Il cadavere, non avendo nulla da offrire, fu spinto fuori dal gruppo, escluso. Gli altri si rannicchiarono vicini, barcollando e sobbalzando in un solo movimento, per tutta la notte. Le tenebre erano assolute, all'interno della nostra prigione metallica. Eravamo su una strada di campagna, e nessuna corriera, o camion con rimorchio, ci seguiva; anche premendo il viso sulla grata metallica, non si poteva vedere nulla fuori della feritoia, nulla all'infuori delle tenebre e del vago apparire della neve caduta.

Neve. Neve che cadeva sfarfallando; neve appena caduta, neve fresca; neve caduta da molto tempo; neve dopo che la pioggia era caduta sopra di essa; neve ghiacciata… l'Orgota e il Karhidi hanno una parola per ciascuna di queste definizioni. In lingua karhidi (che conosco meglio dell'Orgota) esistono, secondo i miei calcoli, sessantadue parole per definire i diversi generi, stati, età, e qualità della neve; della neve caduta cioè. C'è un'altra teoria di parole per le varietà della caduta di neve; un altro gruppo cospicuo per il ghiaccio; una ventina e più di parole per definire il tipo e le variazioni della temperatura, per indicare con quale forza soffia il vento, e quale tipo di precipitazione si sta verificando, tutto insieme. Seduto là, cercai di tracciare degli elenchi di queste parole nella mia mente, per quella notte. Ogni volta che ne ricordavo un'altra ripetevo gli elenchi, inserendo la nuova parola nell'esatta posizione alfabetica.

Dopo l'alba, il camion si fermò. Molti gridarono dalla feritoia che c'era un cadavere all'interno del camion; venite a prenderlo. Noi tutti, uno dopo l'altro, gridammo e strepitammo. Battemmo insieme sulle pareti e sulla porta, producendo un pandemonio così spaventoso, all'interno, che non fummo in grado neppure noi di sopportarlo. Nessuno venne. Il camion rimase fermo per alcune ore. Alla fine, si udì un suono di voci, fuori; il camion si mosse, scivolò sobbalzando su un lastrone di ghiaccio, evidentemente, e ripartì. Dalla feritoia si poteva vedere che era un mattino di sole, mezzogiorno non doveva essere lontano, e che il camion si muoveva tra colline boscose.

Il camion continuò così per altri tre giorni e tre notti… quattro in tutto, dal momento del mio risveglio. Non fece alcuna fermata nei Punti d'Ispezione, e penso che non sia mai passato attraverso una città, di qualsiasi dimensione, o un villaggio. Il suo viaggio era discontinuo, disordinato, furtivo. C'erano delle soste, per cambiare gli autisti e ricaricare le batterie; c'erano delle altre soste, assai più lunghe, per ragioni che dall'interno del rimorchio-prigione era impossibile individuare; per due giorni il camion rimase fermo nelle ore diurne, come se fosse stato abbandonato, dimenticato, da mezzogiorno al tramonto, e poi, una volta cadute le tenebre, aveva ripreso la sua marcia nella notte. Una volta al giorno, verso mezzogiorno, un grosso contenitore d'acqua veniva passato attraverso una specie di sportello nella portiera.

Contando il cadavere eravano ventisei, due volte tredici. I getheniani pensano spesso in cicli di tredici, ventisei, cinquantadue, senza dubbio a causa del ciclo lunare di ventisei giorni che forma il loro mese sempre uguale, e si approssima al loro ciclo sessuale. Il cadavere fu spinto contro le porte d'acciaio che formavano il fondo del nostro cellulare (dovevo chiamarlo così?), dove sarebbe rimasto al freddo. Gli altri, tutti noi, stavamo seduti o distesi o accovacciati, ciascuno al suo posto, il suo territorio, il suo Dominio, fino a notte; quando il freddo si faceva così intenso che, poco a poco, ci avvicinavamo gli uni agli altri, e ci fondevamo in una sola entità che occupava un solo spazio, caldo al centro, freddo alla periferia.