C'era della bontà. Io e certi altri, un vecchio e un uomo che aveva una brutta tosse, venimmo riconosciuti come i meno resistenti al freddo nel gruppo, e ogni notte ci trovavamo al centro del gruppo, l'entità di venticinque unità, il punto più caldo. Non lottavamo per avere il posto più caldo, semplicemente ci trovavamo in esso, ogni notte. È una cosa terribile, la bontà, questa bontà che gli esseri umani non perdono. Terribile, perché quando noi alla fine siamo nudi, nel buio e nel freddo, è tutto ciò che abbiamo. Noi che siamo così ricchi, così pieni di forza, finiamo con quella piccola moneta. Non abbiamo niente altro da dare.
Malgrado la vicinanza, il numero e le notti passate rannicchiati gli uni contro gli altri, noi del camion eravamo distanti, remotissimi gli uni dagli altri. Alcuni erano instupiditi dalle droghe, altri erano probabilmente degli elementi con difetti mentali o sociali fin da un inizio, tutti erano stati maltrattati oltre misura, e avevano una paura tremenda; eppure può essere strano che, tra venticinque, nessuno parlasse mai a tutti gli altri insieme, neppure per maledirli. C'era bontà e sopportazione, ma in silenzio, sempre, sempre in silenzio. Ammucchiati nella rancida oscurità della mortalità che ci univa, ci urtavamo sempre, eravamo vicini, potevamo cadere l'uno sull'altro, il respiro degli altri si univa al nostro respiro, il calore dei nostri corpi veniva unito come quello dei ceppi in un focolare… ma restavamo stranieri. Eravamo estranei. Non riuscii a sapere neppure il nome di un solo dei miei compagni, a bordo del camion.
Un giorno, il terzo giorno, penso, quando il camion si fermò per ore, e io mi domandavo già se non ci avessero semplicemente lasciati a marcire in qualche luogo deserto, uno di loro cominciò a parlarmi. Continuava a dirmi una lunga storia su un mulino in Sud Orgoreyn, dove aveva lavorato, e su come si era messo nei guai con un supervisore. Parlava e parlava con la sua voce sommessa, spenta, e continuava a posare la sua mano sulla mia, come se volesse assicurarsi di avere la mia attenzione. Il sole stava scendendo, era a occidente del camion, e mentre eravamo fermi sul bordo della strada, un raggio di luce entrò dalla feritoia; improvvisamente, anche in quella scatola serrata, si poté vedere. Io vidi una ragazza, una ragazza sporca, graziosa, instupidita, stanca che mi fissava in viso, parlando, sorridendo timidamente, cercando conforto. Il giovane Orgota era in kemmer, ed era stato attratto da me. La sola volta che qualcuno di loro mi chiedeva qualcosa, e io non potevo darla. Mi alzai e andai alla feritoia, come se volessi respirare un po' d'aria e dare un'occhiata fuori, e non ritornai al mio posto per molto, molto tempo.
Quella notte il camion salì a lungo, discese, salì di nuovo. Di quando in quando, si fermava inesplicabilmente. A ogni fermata un gelido silenzio completo gravava fuori delle pareti d'acciaio della nostra scatola, il silenzio di vaste lande desolate, di grande altezze. L'Orgota in kemmer occupava ancora il posto vicino al mio, e cercava ancora di toccarmi. Rimasi in piedi ancora per molto tempo, con il viso premuto contro la rete metallica della feritoia, respirando aria pulita che pareva tagliare gola e polmoni come un rasoio. Le mie mani erano premute contro la porta metallica, e dopo un po' s'intorpidirono. Mi resi conto, alla fine, che quelli erano i primi sintomi del congelamento. Il mio respiro aveva prodotto un piccolo ponte di ghiaccio tra le mie labbra e la rete. Fui costretto a spezzare quel ponte con le dita, prima di potermi voltare. Quando tornai con gli altri, stretto a loro, cominciai a tremare dal freddo, un tremito che non avevo mai conosciuto prima, spasmi sobbalzanti, tremendi, come le convulsioni della febbre. Il camion si rimise in moto. Rumore e movimento davano un'illusione di calore, rompendo l'incantesimo di quel silenzio totale, glaciale, ma quella notte non riuscii a prendere sonno, tanto era il freddo terribile che mi pervadeva. Pensai che fossimo a una quota notevole, ed ebbi la certezza che la stessa quota fosse conservata per gran parte della notte, ma era difficile dirlo con certezza, perché il respiro, i battiti del cuore, e l'energia, di una persona non erano indicazioni fidate, in quelle circostanze.
Come scoprii in seguito, quella notte avevamo attraversato i Sembensyens, e dovevamo aver superato quota tremila, sui passi.
La fame non mi tormentava molto. L'ultimo pasto che ricordavo di aver consumato era stato quella cena lunga e pesante nella casa di Shusgis; dovevano avermi nutrito a Kundershaden, ma non ricordavo affatto le circostanze. Mangiare non pareva far parte di quell'esistenza nella scatola di acciaio, e non pensai molto al cibo. La sete, d'altra parte, era una delle condizioni permanenti di vita. Una volta al giorno, durante una fermata, il piccolo sportello, evidentemente costruito sul fondo del rimorchio a quello scopo, veniva aperto; uno di noi spingeva fuori il contenitore plastico, e ben presto veniva di nuovo spinto dentro, pieno, insieme a una breve zaffata di aria gelida. Non c'era modo di misurare con esattezza l'acqua che ciascuno beveva, di fare delle razioni. Il contenitore veniva passato, e ciascuno beveva tre o quattro sorsi prima di passarlo alla mano che si protendeva a prenderlo. Nessuna persona, o gruppo, agiva da dispensiere o guardiano; nessuno faceva in modo che un sorso restasse in serbo per l'uomo che tossiva, benché egli ora avesse la febbre alta. Fui io a suggerire questo, una volta, e quelli che mi circondavano annuirono, ma non venne fatto. L'acqua veniva divisa in parti più o meno uguali… nessuno cercava mai di ottenere qualcosa di più della sua razione… e finiva entro pochi minuti. Una volta gli ultimi tre, appoggiati alla parete anteriore della scatola di metallo, non ebbero una goccia, perché il contenitore arrivò vuoto a loro. Il giorno dopo, due di loro insistettero per essere i primi della fila, e l'ottennero. Il terzo giacque rannicchiato nel suo angolo anteriore, immobile, e nessuno gli fece avere la sua parte. Perché non avevo cercato di farlo io? Non lo so. Quello fu il quarto giorno passato nel camion. Se io fossi stato saltato, non so se avrei fatto uno sforzo per ottenere la mia parte. Ero consapevole della sete di quell'uomo, e delle sue sofferenze, e di quelle del malato, e di tutti gli altri, come mi rendevo perfettamente conto della mia sete, e delle mie sofferenze. Non ero in grado di fare qualcosa, qualsiasi cosa, per lenire anche una sola di queste sofferenze, e perciò le accettavo, come gli altri, placidamente, con rassegnazione.
So che le persone possono comportarsi molto diversamente nelle stesse circostanze. Costoro erano Orgota, persone addestrate fin dalla nascita a una disciplina di cooperazione, obbedienza, sottomissione agli scopi di gruppo, ordinati dall'alto. Le qualità dell'indipendenza e della decisione erano indebolite, in loro. Non avevano molta capacità di collera. Formavano un tutto, io tra loro; ciascuno lo sentiva, ed era un rifugio e un vero conforto nella notte, quel senso di fare parte di un tutto, di quel gruppo racchiuso nel quale ciascuno traeva la vita dagli altri. Ma non c'era alcun portavoce del tutto, era senza testa, passivo.
Degli uomini la cui volontà fosse stata temperata con maggior vigore avrebbero potuto cavarsela assai meglio: parlare di più, dividere l'acqua con maggiore giustizia, dare un aiuto maggiore al malato, e tenere più in alto il coraggio del gruppo. Non so. So soltanto com'era l'esistenza all'interno del camion.
Il quinto mattino (se i miei calcoli del tempo sono giusti) dal momento in cui mi ero svegliato a bordo del camion, il veicolo si fermò. Sentimmo parlare, fuori, e sentimmo dei richiami, che venivano da diverse distanze. Il fondo del camion venne aperto dall'esterno, la parete di metallo si spalancò davanti a noi.