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Uno per uno, strisciammo all'aperto, a quell'estremità aperta della scatola d'acciaio, alcuni reggendosi sulle mani e sulle ginocchia, e scendemmo al suolo, saltando o strisciando o semplicemente cadendo. Lo facemmo in ventiquattro. Due morti, il vecchio cadavere e uno nuovo, quello che per due giorni non aveva bevuto il suo sorso d'acqua, furono trascinati fuori.

Era freddo fuori, così freddo e così accecante il riverbero della luce del sole sulla neve bianca, che lasciare il fetido riparo del camion fu difficile, e alcuni di noi piansero. Restammo uniti, accanto al grande camion, tutti nudi e fetidi, il nostro piccolo intero, la nostra entità notturna esposta alla vivida, crudele luce diurna. Ci divisero, ci fecero formare una fila, e ci condussero verso un edificio che distava poche centinaia di metri. Le pareti metalliche e il tetto coperto di neve dell'edificio, la pianura di neve tutt'intorno a noi, la grande catena di montagne che si stendeva sotto il sole nascente, l'immenso cielo, tutto pareva tremare e riverberare per la luce eccessiva.

Fummo messi in fila, per lavarci, davanti a una grande vasca, una specie di trogolo in una capanna che era solo pareti; tutti cominciarono col bere l'acqua destinata a lavarci. Dopo questo, fummo condotti nell'edificio principale, e ci furono dati degli abiti… una maglia, una camicia grigia ruvida, dei calzoni, dei gambali, e delle scarpe. Una guardia controllò i nostri nomi su un elenco, mentre in fila entravamo nel refettorio, dove con un centinaio e più di altre persone in grigio sedemmo a tavoli infissi nel pavimento, e ricevemmo la colazione: birra e porridge di grano. Dopo questo, l'intero gruppo, nuovi e vecchi prigionieri, fu diviso in squadre di dodici uomini. La mia squadra fu condotta a una segheria che si trovava poche centinaia di metri dietro l'edificio centrale, all'interno del recinto. Fuori del recinto, e non lontano da esso, una foresta cominciava, una foresta che copriva le colline grinzose, a nord, fin dove l'occhio poteva vedere. Sotto gli ordini della nostra guida, trasportammo e accumulammo delle assi già segate nella segheria, in un vasto capannone dove il legno veniva accumulato durante l'inverno.

Non era facile camminare, chinarsi, e sollevare dei carichi, dopo i giorni passati nel camion. Non ci permisero di riposare, di stare senza far niente, ma non sforzarono il ritmo, in compenso. A metà della giornata ci fu servita una tazza di birra non fermentata; prima del tramonto fummo riaccompagnati nelle caserme comuni, dove ci veniva data la cena, porridge con verdure, e birra. Al cader della notte venivamo rinchiusi nel dormitorio, che per tutta la notte veniva tenuto illuminato. Dormivamo in cuccette profonde un metro e mezzo, tutt'intorno alle pareti della stanza, in due piani. I vecchi prigionieri si arrampicarono al piano superiore, il più desiderabile, perché il calore tende a salire. Per il letto, a ogni uomo veniva fornito una specie di sacco a pelo, alla porta. Si trattava di sacchi ruvidi e pesanti, fetidi per il sudore di altri uomini, ma perfettamente isolati e caldi. Quello che fu più scomodo, per me, fu il trovarli troppo corti. Un getheniano di statura media avrebbe potuto entrarci perfettamente, tener dentro anche la testa, ma io non potevo; né potevo distendermi completamente, sul ripiano duro che era la mia cuccetta, la mia branda, il mio letto.

Il luogo veniva chiamato Pulefen, Terza Fattoria Volontaria e Agenzia di Riprogrammazione della Commensalità. Pulefen, Distretto Trenta, si trova all'estremità nord-occidentale della zona abitabile di Orgoreyn, ed è racchiusa dai Monti Sembensyens, dal Fiume Esagel, e dalla costa. La regione è scarsamente abitata, e non vi esistono grandi o medie città. La città più vicina a noi era una località chiamata Turuf, diverse miglia a sud-ovest; non la vidi né allora, né mai. La Fattoria era sul bordo di una grande regione spopolata, coperta da una folta foresta, Tarrenpeth. Troppo a nord per gli alberi più grandi, hemmen o serem o vate neri, la foresta era tutta di un solo genere di albero, una conifera piccola, tozza, nodosa, alta tra i tre metri e i tre metri e mezzo, dagli aghi grigi, e che veniva chiamata thore. Benché il numero delle specie indigene, piante o animali, su Inverno sia anormalmente esiguo, era notevole la quantità nella quale si manifestavano gli appartenenti a ciascuna specie: c'erano migliaia di miglia quadrate di alberi di thore, e niente altro di più, in quell'unica, gigantesca foresta. Perfino le lande disabitate e impervie sono accudite amorevolmente su Inverno, e benché quella foresta fosse stata depredata di legna e rami per secoli e secoli, non c'erano spazi brulli in essa, non c'erano macchie sprecate, non c'erano distese di tronchi mozzi e squallidi, non c'erano pendii erosi. Sembrava che ogni albero della foresta fosse tenuto in considerazione, e che neppure un granello della polvere che usciva dalle segherie andasse perduto. C'era una piccola industria, nella fattoria, una specie di capannone di lavoro nel quale si trovavano macchinari e strumenti; e quando il cattivo tempo ci impediva di formare delle squadre e andare nella foresta, noi lavoravamo nella segheria o nel capannone, lavorando e comprimendo rami, cortecce e segatura di legno in diverse forme, ed estraendo dagli aghi di thore essiccati una resina che veniva usata nell'industria delle materie plastiche.

Il lavoro era un lavoro vero, e non eravamo sfruttati al di là della nostra resistenza. Se ci avessero concesso un po' più di cibo, e degli abiti migliori, il lavoro sarebbe stato in gran parte gradevole, ma avevamo quasi sempre troppa fame e troppo freddo per trovare qualsiasi forma di soddisfazione nel lavoro. Le guardie erano raramente dure, e mai crudeli. Tendevano a essere stolide, pesanti, lente, e — almeno ai miei occhi — effemminate… non nel senso che si potrebbe credere, come gentilezza, delicatezza, e così via, ma nel senso esattamente opposto: una materialità grossolana e blanda a un tempo, una bovina paciosità senza spigoli e senza lame taglienti. Tra i miei compagni di prigionia, ebbi anche, per la prima volta da quando ero su Inverno, la sensazione di essere un uomo tra donne, o tra eunuchi. I prigionieri avevano quella stessa ottusità, quella stessa volgarità blanda. Erano difficili da distinguere l'uno dall'altro: i loro toni emotivi parevano sempre bassissimi, i loro discorsi banali. Dapprima presi questa assenza di vitalità e questo livellamente come un effetto della scarsa alimentazione, del calore insufficiente, e della libertà perduta, ma ben presto scoprii che si trattava di un effetto assai più specifico: era il risultato delle droghe che venivano date ai prigionieri per impedire a tutti di entrare in kemmer.

Sapevo dell'esistenza di droghe capaci di ridurre, o virtualmente eliminare, la fase di potenza del ciclo sessuale getheniano; venivano usate quando la convenienza, la medicina, o la morale imponevano l'astinenza. Un kemmer, o diversi, potevano venire saltati senza effetti negativi. L'uso volontario di simili droghe era comune e accettato. Non avevo mai pensato, però, che queste droghe potessero venire somministrate a persone che non volevano farne uso.

C'erano dei buoni motivi. Un prigioniero in kemmer sarebbe stato un elemento perturbatore nella sua squadra di lavoro. Se fosse stato dispensato dal lavoro, che cosa si sarebbe dovuto fare di lui?… specialmente se nessun altro prigioniero era in kemmer, in quel momento, com'era possibile, essendoci nella fattoria soltanto centocinquanta prigionieri. Per un getheniano, è assai difficile attraversare il kemmer senza un compagno; meglio, allora, semplicemente ovviare all'infelicità e al tempo di lavoro perduto, e non entrare affatto in kemmer. Così loro lo evitavano.

I prigionieri che si trovavano là da diversi anni erano, psicologicamente, e — credo — entro certi limiti anche fisicamente adattati a questa castrazione chimica. Erano asessuati come buoi. Erano senza vergogna e senza desiderio, come gli angeli. Ma non è umano essere senza vergogna e senza desiderio.