Ma quando dormivo, mi trovavo sempre nel camion, rannicchiato insieme agli altri, ed eravamo tutti puzzolenti, tremanti, nudi, pressati gli uni agli altri per cercare calore, tutti meno uno. Uno giaceva da solo, contro la porta sbarrata, quello freddo, con la bocca piena di sangue raggrumato. Era il traditore. Se ne era andato da solo, abbandonandoci, abbandonandomi. Mi svegliavo pieno di collera, una collera debole e tremante che si scioglieva in lacrime deboli e tremanti.
Devo essere stato molto malato, perché ricordo alcuni degli effetti della febbre violenta, e il medico rimase con me una notte, o forse di più. Non posso ricordare queste notti, ma ricordo di avergli detto, sentendo la nota tremante, querula nella mia voce:
— Avrebbe potuto fermarsi. Ha visto le guardie. È andato a gettarsi sui loro fucili.
Il giovane medico non aveva detto niente per un poco.
— Non starete dicendo che si è ucciso?
— Forse…
— Questa è una cosa molto amara da dirsi sul conto di un amico. E non posso crederla, di Harth rem ir Estraven.
Non avevo pensato, parlando, a quanto era spregevole il suicidio per quella gente. Per loro il suicidio non è, come per noi, una scelta. È la rinuncia alla scelta, l'atto stesso del tradimento. Per un karhidiano che studiasse i nostri canoni, il delitto di Giuda non si troverebbe nel tradimento di Cristo, ma nell'atto che, sigillo ultimo della disperazione, nega ogni possibilità di perdono, di cambiamento, di redenzione, di vita: il suo suicidio.
— Allora voi non lo chiamate Estraven il Traditore?
— Né mai l'ho fatto. Siamo in molti a non aver mai creduto alle accuse contro di lui, signor Ai.
Ma non ero in grado di trovare alcun conforto in queste parole, e avevo saputo solo gridare, pervaso dallo stesso tormento:
— Allora perché gli hanno sparato? Perché è morto?
A questo egli non diede risposta, non essendocene alcuna.
Non venni mai sottoposto a un interrogatorio formale. Mi domandarono come avessi fatto a uscire dalla Fattoria Pulefen e a ritornare in Karhide, e chiesero quale fosse la destinazione e lo scopo del messaggio in codice che avevo inviato attraverso la loro radio. Risposi la verità. Quell'informazione andò direttamente a Erhenrang, raggiunse personalmente il re. L'argomento dell'astronave venne apparentemente tenuto segreto, ma la notizia della mia fuga da una prigione Orgota, il mio viaggio attraverso il Ghiaccio nel cuore dell'inverno, la mia presenza a Sassinoth, vennero riferite e discusse pubblicamente, senza alcuna restrizione. La parte avuta da Estraven nella cosa non venne menzionata per radio, e neppure fu data notizia della sua morte. Eppure tutto questo era noto. La segretezza, in Karhide, è fino a un limite straordinario una questione di discrezione, di un silenzio concordato, accettato mutualmente… un'omissione di domande, ma non un'omissione di risposte. I Bollettini parlavano soltanto dell'Inviato Signor Ai, ma tutti sapevano che era stato Harth rem ir Estraven a strapparmi dalle mani degli Orgota e ad accompagnarmi attraverso il Ghiaccio fino in Karhide, per denunciare l'impudente menzogna dei Commensali che avevano narrato della mia improvvisa morte a Mishnory, in autunno, per un attacco di febbre nera… Estraven aveva predetto gli effetti del mio ritorno in maniera abbastanza accurata; il suo errore era consistito soprattutto nel sottovalutarli. A causa dell'alieno che giaceva malato, senza agire, senza pensare, senza importarsene di nulla, in una stanza di Sassinoth, due governi caddero nel giro di dieci giorni.
Dire che un governo Orgota cade significa, naturalmente, solo che un gruppo di Commensali ha sostituito un altro gruppo di Commensali negli Uffici che controllano il corpo dei Trentatré. Certe ombre si accorciano e certe altre si allungano, come si dice in Karhide. La fazione del Sarf che mi aveva mandato a Pulefen resistette, malgrado l'imbarazzo — del resto non nuovo — di essere stata colta in palese menzogna, fino all'annuncio pubblico dato da Argaven sull'imminente arrivo della Nave Stellare in Karhide. Quel giorno il partito di Obsle, la fazione del Libero Mercato, si impadronì degli uffici direttivi dei Trentatré. Così, dopotutto, io ero stato di qualche utilità a quel gruppo.
In Karhide la caduta di un governo significa, in quasi tutte le accezioni, la caduta in disgrazia e la sostituzione di un Primo Ministro, insieme a un leggero rimpasto del kyorremy; benché l'assassinio politico, l'abdicazione, e l'insurrezione siano tutte alternative di una certa frequenza. Tibe non fece alcun tentativo di resistere. Il mio valore corrente nel gioco dello shifgrethor internazionale, più la mia vendetta (questo implicitamente) di Estraven, mi diedero, alla luce dei fatti, un peso in prestigio così superiore al suo, che egli diede le dimissioni, come più tardi appresi, ancor prima che il Governo di Erhenrang venisse a conoscenza del fatto che io avevo chiamato via radio la mia nave stellare. Aveva agito in base all'avvertimento ricevuto da Thessicher, aveva aspettato fino a quando non aveva avuto notizia della morte di Estraven, e poi aveva dato le dimissioni. Aveva ottenuto la sua sconfitta e la sua vendetta di quella sconfitta allo stesso tempo, in un colpo solo.
Quando Argaven venne completamente informato dell'accaduto, mi inviò una convocazione, una richiesta di andare immediatamente a Erhenrang, e insieme alla convocazione una somma cospicua quale rimborso spese. La Città di Sassinoth, con uguale liberalità, mandò con me il giovane dottore, perché non ero ancora in condizioni buone. Facemmo il viaggio a bordo di slitte a motore. Ricordo solo alcune parti di quel viaggio; era calmo, tranquillo e senza fretta, con lunghe soste in attesa di pressaneve che spianassero la strada, e lunghe notti passate nelle locande che sorgevano lungo la via. Probabilmente il viaggio occupò solo due o tre giorni, ma mi parve lunghissimo, e non riesco a ricordarne molto, fino al momento in cui attraversammo la Porta Nord di Erhenrang, e ci trovammo nelle strade profonde, piene d'ombra e di neve.
Allora sentii che il mio cuore s'induriva e la mente si schiariva, finalmente. Io ero stato completamente in pezzi, disintegrato nel corpo e nello spirito. Ora, benché quel viaggio agevole mi avesse stancato molto, ritrovai dentro di me della forza, qualche forza che era miracolosamente rimasta integra. Forza dell'abitudine, è probabile più di ogni altra cosa, perché finalmente mi trovavo in un luogo che conoscevo, una città nella quale avevo vissuto, e lavorato, per più di un anno. Riconoscevo le strade, le torri, i cortili severi e i sentieri e le facciate del Palazzo. Conoscevo qual era il mio compito, là. Perciò per la prima volta mi venne in mente il pensiero che, essendo morto il mio amico, dovevo portare a compimento l'impresa per la quale lui era morto. Questo era molto chiaro in quel momento, per me. Dovevo mettere la chiave di volta nell'arcata.
Alle porte del Palazzo, l'ordine che mi concerneva era quello di procedere per una delle Case degli Ospiti, all'interno delle mura del Palazzo. La mia dimora era la Dimora della Torre Rotonda, la qual cosa significava un altissimo grado di shifgrethor nella corte: non tanto il favore del re, quanto il suo riconoscimento di uno status già alto. Gli ambasciatori di potenze amichevoli erano solitamente alloggiati là. Era un ottimo segno. Per arrivarci, però, dovemmo passare davanti alla Dimora Rossa dell'Angolo, e io guardai, attraverso la porta dallo stretto arco, l'albero spoglio che tendeva i suoi rami sulla piscina, grigia di ghiaccio, e la casa che sorgeva ancora vuota e abbandonata.
Alla porta della Torre Rotonda venni accolto da una persona in hieb bianco e camicia cremisi, che portava una catena d'argento intorno al collo: Faxe, il Profeta della Fortezza di Otherhord. Alla vista del suo volto bello e gentile, il primo volto conosciuto che vedessi da moltissimi giorni, una fiumana di sollievo travolse e addolcì il mio umore di risoluzione tesa e forzata. Quando Faxe mi prese le mani, nel raro gesto di saluto karhidiano, e mi diede il benvenuto come amico, riuscii a rispondere in qualche maniera al suo calore.