Ci nascondemmo nella tana profonda, sotto gli alberi scuri, nella neve. Giacemmo vicinissimi, per scaldarci. Verso mezzogiorno, Estraven si riposò per un poco, ma io avevo troppa fame e troppo freddo per dormire; giacqui là, accanto al mio amico, in una specie di torpore, stordito, cercando di ricordare le parole che mi aveva citato una volta: Due sono uno, vita e morte, e giacciono insieme… Somigliava un poco alle notti passate sotto la tenda, sul Ghiaccio, ma senza riparo, senza cibo, senza riposo: non restava altro che la nostra compagnia, che ben presto sarebbe anch'essa finita.
Il cielo cominciò a coprirsi, nel pomeriggio, dapprima una foschia bianca, poi nuvole più dense, e la temperatura cominciò a calare. Perfino in quella tana dove non spirava vento fu troppo freddo per restare immobili. Fummo costretti a muoverci, eppure, verso il tramonto, fui colto dai brividi e sussulti, simili a quelli che avevo conosciuto nel camion-prigione, attraverso Orgoreyn. L'oscurità pareva impiegare secoli e secoli a discendere. Nel crepuscolo azzurro, lasciammo il nostro riparo e, strisciando cautamente, nascondendoci sotto alberi e cespugli, risalimmo la collina, fino a quando non potemmo distinguere di nuovo la barriera del confine, una serie di punti fievoli lungo la neve pallida. Non c'erano luci, nulla si muoveva, non si udiva alcun suono. Lontano, a sud ovest, brillava lo scintillio giallo di una piccola città, qualche piccolo Villaggio Commensale di Orgoreyn, dove Estraven avrebbe potuto andare, con i suoi inaccettabili documenti d'identificazione, e avrebbe ottenuto almeno l'alloggio per una notte nella Prigione Commensale, o forse nella più vicina Fattoria Volontaria Commensale. Improvvisamente… là, all'ultimo momento, non prima… mi resi conto di quello che il mio egoismo e il silenzio di Estraven mi avevano tenuto nascosto, dove egli stesse andando e a che cosa andasse incontro.
Dissi:
— Therem… aspetta…
Ma lui era già partito, giù per la collina: uno sciatore prodigiosamente veloce, che questa volta non indugiava per aspettarmi. Sfrecciò veloce, descrivendo un'ampia curva, attraverso le ombre, sulla neve. Fuggiva da me, e andava direttamente verso i fucili delle guardie di frontiera. Penso che le guardie gridassero un avvertimento, o l'ordine di fermarsi, e una luce dovette accendersi da qualche parte, ma non ne sono sicuro; in ogni caso, lui non si fermò, ma discese come una freccia verso la barriera, e le guardie spararono, abbattendolo prima che egli potesse raggiungerla. Non usarono i paralizzatori sonici ma i fucili d'assalto, l'antica arma che spara una raffica di frammenti metallici. Spararono per ucciderlo. Stava morendo quando io lo raggiunsi, era disteso in maniera bizzarra, con il corpo scomposto, strappato dagli sci che sporgevano dalla neve, e il petto era squarciato dalla raffica mortale. Presi il suo capo tra le braccia e gli parlai, ma egli non mi rispose; solo in un modo rispose al mio amore per lui, gridando, nella distruzione e nel tumulto silenzioso della sua mente, un attimo prima che la conoscenza crollasse, nella lingua silenziosa del pensiero, una volta, chiaramente: «Arek!» E poi, nient'altro. Lo tenni stretto, rannicchiato là nella neve, mentre lui moriva. Mi lasciarono fare questo. Poi mi fecero alzare, e portarono via me da una parte, e lui dall'altra, io per andare in prigione, e lui nelle tenebre.
CAPITOLO VENTESIMO
Una inutile impresa
In qualche punto degli appunti che Estraven aveva scritto durante la nostra traversata del Ghiaccio di Gobrin, egli si chiede per quale motivo il suo compagno ha vergogna di piangere. Anche allora avrei potuto dirgli che non si trattava tanto di vergogna, quanto di paura. Ora io andavo attraverso la Valle di Sinoth, percorrendo le ombre della sera della sua morte, nel freddo paese che si stende oltre la paura. In quel paese scoprii che si può piangere quanto si vuole, ma non c'è sollievo, non c'è niente di buono in questo.
Fui riportato a Sassinoth e imprigionato, perché ero stato in compagnia di un fuorilegge, e probabilmente perché non sapevano cos'altro fare di me. Fin dall'inizio, ancor prima che gli ordini ufficiali giungessero da Erhenrang, mi trattarono bene. La mia prigione karhidi era una stanza ammobiliata, nella Torre dei Lords-Eletti di Sassinoth; avevo un caminetto, una radio, e mi venivano dati cinque pasti abbondanti al giorno. Non era una stanza comoda. Il letto era duro, le coperte sottili, il pavimento spoglio, l'aria fredda… come tutte le stanze di Karhide. Ma mandarono un medico, nelle cui mani e nella cui voce c'era un conforto più durevole, più concreto, di tutti i lussi e i conforti che avevo trovato in Orgoreyn. Dopo il suo arrivo, credo che la porta fosse lasciata aperta. La ricordo aperta, mentre io desideravo che fosse chiusa, per il soffio d'aria fredda che veniva dal corridoio. Ma io non avevo la forza, né il coraggio, di scendere dal letto per chiudere la porta della mia prigione.
Il medico, un individuo dall'aria grave e materna, mi disse con un tono di pacifica certezza:
— Per cinque o sei mesi avete mangiato troppo poco, e avete faticato troppo. Vi siete consumato. Non c'è più niente da consumare. State disteso, riposatevi. State disteso, come i fiumi ghiacciati nelle valli durante l'inverno. State immobile. Aspettate.
Ma quando dormivo, mi trovavo sempre nel camion, rannicchiato insieme agli altri, ed eravamo tutti puzzolenti, tremanti, nudi, pressati gli uni agli altri per cercare calore, tutti meno uno. Uno giaceva da solo, contro la porta sbarrata, quello freddo, con la bocca piena di sangue raggrumato. Era il traditore. Se ne era andato da solo, abbandonandoci, abbandonandomi. Mi svegliavo pieno di collera, una collera debole e tremante che si scioglieva in lacrime deboli e tremanti.
Devo essere stato molto malato, perché ricordo alcuni degli effetti della febbre violenta, e il medico rimase con me una notte, o forse di più. Non posso ricordare queste notti, ma ricordo di avergli detto, sentendo la nota tremante, querula nella mia voce:
— Avrebbe potuto fermarsi. Ha visto le guardie. È andato a gettarsi sui loro fucili.
Il giovane medico non aveva detto niente per un poco.
— Non starete dicendo che si è ucciso?
— Forse…
— Questa è una cosa molto amara da dirsi sul conto di un amico. E non posso crederla, di Harth rem ir Estraven.
Non avevo pensato, parlando, a quanto era spregevole il suicidio per quella gente. Per loro il suicidio non è, come per noi, una scelta. È la rinuncia alla scelta, l'atto stesso del tradimento. Per un karhidiano che studiasse i nostri canoni, il delitto di Giuda non si troverebbe nel tradimento di Cristo, ma nell'atto che, sigillo ultimo della disperazione, nega ogni possibilità di perdono, di cambiamento, di redenzione, di vita: il suo suicidio.
— Allora voi non lo chiamate Estraven il Traditore?
— Né mai l'ho fatto. Siamo in molti a non aver mai creduto alle accuse contro di lui, signor Ai.
Ma non ero in grado di trovare alcun conforto in queste parole, e avevo saputo solo gridare, pervaso dallo stesso tormento:
— Allora perché gli hanno sparato? Perché è morto?
A questo egli non diede risposta, non essendocene alcuna.
Non venni mai sottoposto a un interrogatorio formale. Mi domandarono come avessi fatto a uscire dalla Fattoria Pulefen e a ritornare in Karhide, e chiesero quale fosse la destinazione e lo scopo del messaggio in codice che avevo inviato attraverso la loro radio. Risposi la verità. Quell'informazione andò direttamente a Erhenrang, raggiunse personalmente il re. L'argomento dell'astronave venne apparentemente tenuto segreto, ma la notizia della mia fuga da una prigione Orgota, il mio viaggio attraverso il Ghiaccio nel cuore dell'inverno, la mia presenza a Sassinoth, vennero riferite e discusse pubblicamente, senza alcuna restrizione. La parte avuta da Estraven nella cosa non venne menzionata per radio, e neppure fu data notizia della sua morte. Eppure tutto questo era noto. La segretezza, in Karhide, è fino a un limite straordinario una questione di discrezione, di un silenzio concordato, accettato mutualmente… un'omissione di domande, ma non un'omissione di risposte. I Bollettini parlavano soltanto dell'Inviato Signor Ai, ma tutti sapevano che era stato Harth rem ir Estraven a strapparmi dalle mani degli Orgota e ad accompagnarmi attraverso il Ghiaccio fino in Karhide, per denunciare l'impudente menzogna dei Commensali che avevano narrato della mia improvvisa morte a Mishnory, in autunno, per un attacco di febbre nera… Estraven aveva predetto gli effetti del mio ritorno in maniera abbastanza accurata; il suo errore era consistito soprattutto nel sottovalutarli. A causa dell'alieno che giaceva malato, senza agire, senza pensare, senza importarsene di nulla, in una stanza di Sassinoth, due governi caddero nel giro di dieci giorni.