— Sono venuta in amicizia.
Ai suoi occhi, eravamo tutti alieni. Lasciai che fosse Faxe a salutarla per primo.
Lui mi indicò a lei, e lei venne e mi prese la mano destra, nella maniera del mio popolo, guardandomi in viso.
— Oh, Genly — disse. — Non ti avevo riconosciuto!
Era strano udire la voce di una donna, dopo tanto tempo. Gli altri uscirono dalla nave, dietro mio consiglio: mostrare qualsiasi forma di sfiducia, a questo punto, avrebbe umiliato la scorta karhidiana, mettendo in gioco il loro shifgrethor. Uscirono tutti, e incontrarono i karhidiani con perfetta cortesia. Ma tutti avevano un aspetto strano, ai miei occhi, uomini e donne, benché li conoscessi così bene. Le loro voci avevano un suono strano: troppo profonde, troppo acute. Erano come una banda di animali strani e grandi, di due specie diverse: grandi scimmie dagli occhi intelligenti, tutti quanti in fregola, in kemmer… Mi presero la mano, mi toccarono, mi tennero stretto.
Riuscii a controllarmi, e a dire a Heo Hew e a Tulier quello che era necessario sapere con maggiore urgenza sulla situazione nella quale erano entrati, e questo lo dissi a bordo della slitta, nel viaggio di ritorno verso Erhenrang. Quando giungemmo al Palazzo, però, dovetti andare subito nella mia stanza.
Il medico di Sassinoth entrò. La sua voce calma, e il suo viso, un viso giovane, serio, non un viso d'uomo e non di donna, un viso umano, furono un sollievo per me, familiari, giusti… Ma lui disse, dopo avermi ordinato di andare a letto, e avermi dato una dose di un tranquillante blando:
— Ho visto i vostri colleghi Inviati. Questa è una cosa meravigliosa, la venuta di uomini dalle stelle. E pensare che questo sia accaduto nella mia vita mi dà un brivido di gioia!
Là, di nuovo, trovavo il piacere, il coraggio, che sono le cose più ammirevoli nello spirito karhidiano… e nello spirito umano… e benché io non potessi dividere queste cose con lui, negarle sarebbe stato un atto detestabile. Io dissi, senza sincerità, ma con assoluta verità:
— È davvero una cosa meravigliosa anche per loro, la venuta su di un nuovo mondo, tra una nuova umanità.
Alla fine di quella primavera, negli ultimi giorni di Tuwa, quando le inondazioni del disgelo si erano ritirate, ed era ritornato possibile viaggiare, presi una vacanza dalla mia piccola Ambasciata di Erhenrang, e mi diressi a est. La mia gente era disseminata, ormai, su tutta la superficie abitabile del pianeta. Da quando avevamo ricevuto l'autorizzazione a usare gli aerei, Heo Hew e altri tre ne avevano preso uno, volando fino a Sith e all'Arcipelago, nazioni dell'Emisfero Oceanico che io avevo interamente trascurato. Altri si trovavano in Orgoreyn, e due, riluttanti, erano andati a Perunter, dove il Disgelo non comincia mai fino a Tuwa, e ogni cosa ritorna a gelarsi (dicono) una settimana più tardi. Tulier e Ke'sta stavano facendo un eccellente lavoro a Erhenrang, e potevano affrontare tutto quel che avrebbe potuto accadere, con facilità. Non c'era nulla di urgente. Dopotutto, una nave stellare che fosse partita immediatamente da uno dei nuovi alleati di Inverno più vicini non avrebbe potuto giungere prima di diciassette anni, tempo planetario. Inverno è un mondo marginale, ai bordi della Via Lattea. Al di là di quel sistema, verso il Braccio Sud di Orione, nessun mondo era stato trovato, sul quale vivessero gli uomini. E ci vuole molta, molta strada tra le stelle, da Inverno ai mondi più ricchi e importanti dell'Ecumene, i mondi che costituiscono il Focolare della nostra razza: cinquant'anni per Hain-Davenant, una vita umana per la Terra. Non c'era fretta.
Attraversai il Kargav, questa volta per dei passi più bassi, seguendo una strada sinuosa, che percorre le alture dominando la costa del mare meridionale. Feci una visita al primo villaggio nel quale mi ero fermato, quando i pescatori mi avevano portato là dall'Isola di Horden, tre anni prima; la gente di quel Focolare mi accolse, ora come allora, senza la minima sorpresa. Passai una settimana nella grande città portuale di Thater, alla foce del Fiume Ench, e poi, nei primi giorni dell'estate, partii a piedi verso Kermlandia.
Andai a est e a sud, in quel territorio ripido e ostile, pieno di crepacci e di colline verdi e di grandi fiumi e di case solitarie, finché non giunsi al Lago di Ghiaccio. Dalla riva del lago, guardando in alto, a sud, verso le colline, vidi una luce che conoscevo: l'ammiccare, il cielo soffuso di bianco, il lucore del ghiacciaio che si stendeva più oltre, in alto, lontano. Il Ghiaccio era là.
Estre era un luogo molto antico. Il suo Focolare e gli edifici esterni erano tutti di pietra grigia, tagliata dal ripido fianco della montagna alla quale erano aggrappati. Era un luogo spoglio, pieno del suono del vento.
Battei alla porta, e la porta fu aperta. Dissi:
— Chiedo l'ospitalità del Dominio. Ero un amico di Therem di Estre.
Colui che mi aveva aperto, un individuo piccolo e snello, dall'aria grave, che non aveva più di diciannove o vent'anni, accettò le mie parole in silenzio, e in silenzio mi ammise nel Focolare. Mi accompagnò nella Casa dell'Acqua, nella Casa degli Indumenti, e nella grande cucina, e quando fu sicuro che lo straniero fosse pulito, vestito, e sfamato, mi lasciò solo in una camera da letto che guardava, da finestre profonde e strette, sul lago grigio e sulle grige foreste di thore che giacciono tra Estre e Stok. Era una terra spoglia, una casa spoglia. Il fuoco ruggiva nel profondo del focolare, dando come sempre più calore per l'occhio e lo spirito che per la carne, perché il pavimento e le mura di pietra, il vento esterno, che soffiava ululando dalle montagne e dal Ghiaccio, bevevano avidamente quasi tutto il calore che emanava dalle fiamme. Ma io non sentivo freddo, non lo sentivo più tanto come l'avevo sentito nei primi due anni passati su Inverno; ormai da molto tempo vivevo in una terra fredda.
Dopo circa un'ora il ragazzo (nell'aspetto e nei movimenti aveva la delicatezza e la guizzante grazia di una fanciulla, ma nessuna fanciulla avrebbe potuto mantenere un silenzio così cupo come il suo) venne a dirmi che il Lord di Estre mi avrebbe ricevuto, se desideravo andare da lui. Lo seguii in basso, attraverso lunghi corridoi dove si svolgeva un gioco, che mi pareva consistesse nel nascondersi e cercare. Molti bambini correvano accanto a noi, giravano intorno a noi, i più piccoli che gridavano di eccitazione, gli adolescenti che scivolavano come ombre di porta in porta, tenendosi le mani sulla bocca, per rendere muta la risata che saliva. Una creaturina grassa, di cinque o sei anni, si aggrappò alle mie gambe, poi si tuffò e prese la mano della mia scorta, cercando protezione.
— Sorve! — squittì, continuando a fissarmi sempre a occhi spalancati. — Sorve, vado a nascondermi nella birreria… — E se ne andò veloce, come un ciottolo rotondo scagliato da una fionda. Il giovane Sorve, per nulla scomposto, mi guidò più oltre, e mi fece entrare nel Focolare Interno, al cospetto del Lord di Estre.
Esvans Harth rem ir Estraven era un vecchio, che aveva oltrepassato i settant'anni, paralizzato dalle artriti ai fianchi. Sedeva eretto in una poltrona a rotelle, accanto al fuoco. Il suo viso era largo, consumato e segnato dal tempo, come una rupe in un torrente: un viso calmo, terribilmente calmo.
— Voi siete l'Inviato, Genry Ai?
— Sì.
Lui mi fissò, e io lo fissai. Therem era stato il figlio, figlio della carne, di questo vecchio signore. Therem il figlio più giovane; Arek il maggiore, quel fratello la cui voce egli aveva udito nella mia, che gli aveva parlato nel muto linguaggio del pensiero; entrambi morti, ormai. Non potevo vedere nulla del mio amico in quel vecchio viso consumato, calmo, duro, che sosteneva il mio sguardo. Là non trovai nulla, se non la certezza, la sicura realtà del fatto che Therem era morto.