— Grazie. Il mio nome è Foreth. Sono un Abitante della Fortezza di Orgny.
— Siete del clan di Estraven?
— No. Foreth rem ir Osboth; ero il suo kemmeri.
Estraven non aveva avuto alcun kemmeri, quando l'avevo conosciuto, ma non riuscii a suscitare dentro di me alcun sospetto sul conto di quel nuovo arrivato. Forse egli stava servendo involontariamente i propositi di qualcuno, ma era sincero. E mi aveva insegnato proprio in quel momento una lezione: che lo shifgrethor può essere giocato sul livello dell'etica, e che il giocatore esperto vincerà sempre. Mi aveva costretto con le spalle al muro in appena due mosse…
Aveva con sé il denaro, e me lo diede, una bella somma in note di credito del Regio Commercio Karhidi, nulla che potesse incriminarmi, e di conseguenza che potesse impedirmi, semplicemente, di spendere il denaro.
— Se riuscite a trovarlo… — Si interruppe.
— Un messaggio?
— No. Solo se io sapessi…
— Se lo troverò, cercherò di mandarvi delle notizie.
— Grazie — disse, e tese entrambe le mani verso di me, un gesto di amicizia che in Karhide non viene mai fatto con leggerezza. — Auguro successo alla vostra missione, signor Ai. Lui… Estraven… lui credeva che foste venuto qui per fare del bene, lo so. Lo credeva con grande fermezza.
Non c'era niente al mondo, per quest'uomo, all'infuori di Estraven. Era uno di coloro che sono condannati ad amare una sola volta. Dissi di nuovo:
— Non c'è qualche messaggio che io possa portargli?
— Ditegli che i bambini stanno bene — disse, poi esitò, e disse, piano — Nusuth, non importa — e mi lasciò.
Due giorni più tardi io presi la strada che usciva da Erhenrang, la strada di nord-ovest, questa volta, a piedi. Il mio permesso per entrare in Orgoreyn era arrivato assai prima di quanto gli impiegati e gli ufficiali-burocratici dell'Ambasciata Orgota mi avessero indotto ad aspettare, o che essi stessi avessero aspettato; quando andai a ritirare i documenti, essi mi trattarono come una specie di velenoso rispetto, offesi perché il protocollo e i regolamenti erano stati, in virtù dell'autorità di qualcuno, messi da parte nel mio caso. Poiché Karhide non aveva regolamenti di sorta che impedissero, o condizionassero l'uscita dal paese, partii immediatamente. Nel corso dell'estate avevo scoperto quale terra piacevole e ospitale potesse essere Karhide per il viandante e il viaggiatore. Strade e taverne e luoghi di ristoro sono tutti approntati per il traffico a piedi, oltre che per i veicoli a motore, e dove le taverne mancano, e le locande sono assenti, si può infallibilmente contare sul codice dell'ospitalità. Cittadini e paesani dei Condominii, e la gente dei villaggi, i contadini, o gli stessi Lord di qualsiasi Dominio, daranno a un viaggiatore cibo e alloggio per tre giorni, secondo il codice, in qualsiasi evenienza, e, in pratica, per un periodo assai più lungo; e quel che è ancor meglio, si è sempre ricevuti senza brontolii e senza riserve, si è sempre i benvenuti, come se avessero aspettato il vostro arrivo.
Vagabondai per la splendida terra digradante tra il Sess e l'Ey, senza badare al trascorrere del tempo, con calma, guadagnandomi il vitto e l'alloggio, un paio di giorni, con il lavoro nei campi dei grandi Dominii, dove era tempo di raccolto, per il quale erano mobilitate tutte le braccia e tutti gli attrezzi e tutte le macchine, per mietere i campi dorati prima che il tempo cambiasse e il gelo pungente dell'autunno vincesse il tepore della stagione più mite. Era tutto dorato, tutto benigno; quella settimana di cammino fu una lunga strada sorridente tra messi d'oro e amichevoli; e di notte, prima di dormire, io uscivo dalla buia fattoria o dalla Sala del Focolare illuminata dove io ero alloggiato, e camminavo per qualche tempo tra i covoni profumati, tra i rami ormai secchi, fino al punto dove sollevando lo sguardo potevo guardare le stelle, che brillavano come lontane città nel buio ventoso dell'autunno.
In realtà pensavo con riluttanza all'idea di lasciare questa terra, che io avevo trovato, pur così indifferente per l'Inviato, così gentile verso lo straniero. Pensavo con un senso di gelo, di squallore, all'idea di ricominciare tutto, di cercare di ripetere la notizia che io portavo in una lingua nuova per ascoltatori nuovi, forse fallendo di nuovo. Mi spinsi nel mio vagabondare più a nord che a occidente, giustificando la strada che avevo preso, di fronte a me stesso, con la curiosità di vedere la regione della Valle di Sinoth, il cuore e la regione della rivalità esistente tra Karhide e Orgoreyn. Benché il tempo rimanesse chiaro e sereno, cominciava a fare più freddo, e infine mi diressi a occidente prima di giungere a Sassinoth, ricordando che esisteva una barriera che attraversava quel punto della frontiera, e che là forse non avrei con tanta facilità ottenuto il permesso di lasciare Karhide. Qui la frontiera era l'Ey, un fiume stretto ma fiero e tumultuoso, alimentato dai ghiacciai come tutti i fiumi del Grande Continente. Discesi a sud per alcuni chilometri, prima di trovare un ponte, e mi imbattei in uno che univa due piccoli villaggi, Passerer sulla riva di Karhide, e Siuwensin in Orgoreyn, che si fissavano pigramente attraverso il rumoroso, impetuoso Ey.
Il guardiano del ponte karhidi mi chiese soltanto se avevo intenzione di ritornare quella notte, e mi fece segno di passare. Sul lato Orgota un Ispettore venne chiamato a ispezionare il mio passaporto e i documenti, cosa che egli fece per quasi un'ora, un'ora karhidi. Trattenne il passaporto, dicendomi che avrei dovuto richiederlo il mattino dopo, e mi fornì, al suo posto, un foglio di permesso che mi concedeva di avere vitto e alloggio nella Casa di Transito Commensale di Siuwensin. Passai un'altra ora nell'ufficio del sovrintendente della Casa di Transito, mentre il sovrintendente leggeva i miei documenti e controllava l'autenticità del mio permesso telefonando all'Ispettore della Stazione di Frontiera Commensale dalla quale ero appena venuto.
Non posso definire propriamente la parola Orgota che qui viene tradotta come «commensale», «commensalità». La sua radice è una parola che significa «mangiare insieme». Il suo uso comprende tutte le istituzioni nazionali/governative di Orgoreyn, dello Stato come totalità e come unità ai suoi sottostati componenti, trentatré, chiamati Distretti, fino ai sottosottostati, le contee, le fattorie comuni, le miniere, le fabbriche, e così via, che compongono i Distretti. Come aggettivo, è applicato a tutto quel che ho già descritto; nella forma «i Commensali», esso usualmente significa i trentatré Capi di Distretto, che formano il corpo governativo, esecutivo e legislativo, della Grande Commensalità di Orgoreyn, ma può anche significare i cittadini, lo stesso popolo. In questa curiosa mancanza di distinzione tra l'applicazione generale e specifica della parola, nel suo uso sia per l'intero che per la parte, lo stato e l'individuo, nella sua imprecisione c'è il suo più preciso significato.
I miei documenti e la mia presenza furono finalmente approvati, e alla Quarta Ora consumai il mio primo pasto, dopo la prima colazione… una cena: kadik e pane, freddo e poco gradevole. Malgrado tutto il suo dispiego di burocrati e di ufficiali, Siuwensin era un luogo piccolo e semplice, immerso profondamente nel torpore rurale. La Casa di Transito Commensale era più piccola del suo nome. La sua camera da pranzo aveva un solo tavolo, cinque sedie, e nessun focolare; il cibo veniva portato dalla locanda del villaggio. L'altra camera era il dormitorio: sei letti, uno strato di polvere, molta ruggine intorno. L'avevo tutto per me, quel dormitorio. Poiché tutti, a Siuwensin, apparentemente erano andati a letto subito dopo cena, io feci lo stesso. Mi addormentai in quel totale silenzio della campagna, quel silenzio così intenso che vi fa ronzare gli orecchi. Dormii per un'ora, e mi svegliai stretto da un incubo pieno di esplosioni, d'invasione, di delitti, e di conflitti.
Fu un sogno particolarmente brutto, lo stesso tipo d'incubo nel quale voi correte e correte per una strada ignota al buio, con tante persone che non hanno volto, mentre le case scoppiano e bruciano in grandi lingue di fiamma subito dietro di voi, e i bambini gridano di orrore e di dolore.