Impiegammo tre giorni ad attraversare la Foresta di Tarrenpeth. Durante l'ultimo giorno, Estraven si fermò ad accamparsi presto, per predisporre delle trappole. Voleva catturare qualche pesthry. I pesthry sono tra i più grandi animali terrestri di Inverno, hanno le dimensioni di una volpe, sono vegetariani ovipari con una splendida pelliccia di pelo bianco o grigio. Lui voleva la loro carne, perché i pesthry sono commestibili. Stavano migrando verso sud in grande numero; sono animali dal passo così leggero e così solitari, che ne vedemmo soltanto due o tre, durante il tragitto, ma la neve era battuta, in ogni angolo della foresta, da centinaia e centinaia di minuscole orme, le orme della grande migrazione annuale, tutte dirette a sud. I lacci posti da Estraven si riempirono, dopo un paio d'ore. Estraven uccise i sei animali, e li ripulì, appese a congelare una parte della carne, ne tenne in serbo un poco per il nostro pasto della sera. I getheniani non sono un popolo di cacciatori, perché esiste ben poca selvaggina… non ci sono grossi erbivori, perciò non esistono grossi carnivori, se non nei mari fertili, e brulicanti di vita. I getheniani sono pescatori e agricoltori. Prima di allora, non avevo mai visto un getheniano con le mani macchiate di sangue.
Estraven guardò le pelli bianche.
— C'è una settimana di vitto e alloggio per un cacciatore di pesthry — disse. — Peccato che vada sprecato. — Tese una delle pelli, perché io la toccassi. La pelliccia era così soffice e profonda e folta che era impossibile dire con sicurezza quando la vostra mano cominciava a toccarla. I nostri sacchi a pelo, i soprabiti, e i cappucci, erano bordati dello stesso pelo, un isolante termico insuperabile, e stupendo da vedersi.
— Non sembra proprio che ne valesse la pena — dissi, — per un pasto.
Estraven mi lanciò quel suo breve sguardo oscuro, e disse:
— Abbiamo bisogno di proteine. — E gettò via le pelli, dove durante la notte i russy, i piccoli, feroci topi-serpenti, le avrebbero divorate, insieme alle ossa e ai rifiuti, e avrebbero leccato la neve insanguinata, ripulendola completamente.
Aveva ragione; in genere, aveva ragione. In un pesthry, c'erano una libbra o due di carne commestibile. Consumai metà della carne, quella sera, e avrei potuto mangiare anche la porzione di Estraven, senza accorgermene. Il mattino dopo, quando ripartimmo tra le montagne, la mia forza era raddoppiata, rispetto al giorno prima.
Quel giorno salimmo e salimmo ancora. La benefica nevicata e il kroxet… un tempo senza vento, tra i -3 e i -12 gradi… che ci avevano accompagnati attraverso Tarrenpeth, e oltre la portata del probabile inseguimento, ora cominciarono a dissolversi, per disgrazia, in temperature al di sopra dello zero, e in pioggia. Ora cominciavo a capire perché i getheniani si lamentano quando d'inverno la temperatura aumenta, e si rallegrano quando diminuisce. Nelle città, la pioggia è un inconveniente, un fastidio; per il viaggiatore, si tratta di una vera catastrofe. Trascinammo la slitta sui fianchi dei Sembensyens per tutta la mattinata, attraverso un freddo, sferzante, intenso miscuglio di pioggia ghiacciata e neve. Nel pomeriggio, sui pendii più ripidi, la neve era quasi del tutto scomparsa. Torrenti di pioggia, miglia di fango e di poltiglia vischiosa. Staccammo i pattini, montammo le ruote sulla slitta, e continuammo a salire. Trasformata in un carro a ruote, la slitta era infida, maledetta, e si bloccava e traballava e minacciava di rovesciarsi a ogni istante. L'oscurità cadde prima che riuscissimo a trovare un riparo, un anfratto o una grotta dove erigere la tenda, e così, malgrado tutte le nostre attenzioni, le cose si bagnarono. Estraven aveva detto che una tenda come la nostra ci avrebbe ospitati con tutte le comodità, in qualsiasi clima, con qualsiasi tempo, purché la mantenessimo asciutta all'interno.
— Se non è possibile essere all'asciutto, nei nostri sacchi a pelo, si perde troppo calore del corpo per tutta la notte, ed è impossibile dormire bene. Le nostre razioni di cibo sono troppo limitate, per permetterci di correre questo rischio. Non possiamo contare sui raggi del sole, per asciugare le cose, così dobbiamo impedire che si bagnino.
Io avevo ascoltato, ed ero stato scrupoloso come lui, nel tenere neve e bagnato fuori della tenda, e così c'era stata soltanto l'inevitabile umidità prodotta dalla nostra «cucina», e dai nostri pori e dai polmoni. Ma quella notte l'umidità aveva pervaso tutto, ancor prima che fossimo riusciti ad alzare la tenda. Ci rannicchiammo, esalando vapore, accanto alla stufa Chabe, e dopo qualche tempo avemmo della carne di Pesthry da mangiare, calda e solida, buona, tanto da compensare qualsiasi altra cosa. Il misuratore della slitta, ignorando il duro lavoro di scalata che avevamo compiuto per tutto il giorno, disse che avevamo percorso soltanto nove miglia.
— È il primo giorno che abbiamo percorso meno della nostra media — dissi.
Estraven annuì, e abilmente spezzò un osso, per succhiarne il midollo. Si era tolto gli indumenti bagnati, ed era rimasto in camicia e calzoni, scalzo, con il colletto aperto. Io avevo ancora troppo freddo per togliermi soprabito e hieb e scarpe. Estraven era là, intento a spezzare le ossa per succhiarne il midollo, il midollo nutriente dei pesthry, abile, preciso, duro, accurato, paziente, con i suoi capelli che somigliavano a una pelliccia preziosa che lo riparavano dall'acqua, come le piume di un uccello; un po' d'acqua gli cadeva sulle spalle, e lui pareva non accorgersene. Non era scoraggiato. Quello era il suo posto. Quello era il suo mondo.
La prima razione di carne mi aveva prodotto dei dolori intestinali, e quella notte essi si fecero forti, insopportabili. Giacqui sveglio, nell'umida oscurità, ascoltando il rumore della pioggia battente.
A colazione, mi disse:
— Avete passato una brutta notte.
— Come fate a saperlo? — Perché lui aveva dormito molto profondamente, senza quasi muoversi, anche quando io avevo lasciato la tenda.
Mi lanciò di nuovo quel suo sguardo.
— Cosa avete avuto?
— Un attacco di diarrea.
Batté le palpebre, e disse, con rabbia:
— È stata la carne.
— Temo di sì.
— Colpa mia. Dovrei…
— Niente di male.
— Siete in grado di viaggiare?
— Sì.
La pioggia cadeva, cadeva, cadeva battente, implacabile, continua. Un vento occidentale, che veniva dal mare, manteneva la temperatura sui quindici gradi, perfino lassù, a mille, milleduecento metri di altitudine. Non riuscivamo a vedere a più di un quarto di miglio, attraverso quella cortina grigia, plumbea, attraverso quella nebbia insidiosa e quella grande massa di pioggia. Non alzai mai lo sguardo, a fissare i pendii che si alzavano davanti a noi: non c'era nulla da vedere… solo la pioggia che cadeva. Procedemmo servendoci della bussola tenendoci a nord, per quanto ce lo permettevano le grandi montagne.
Il ghiacciaio era stato sui pendii di queste montagne, nelle centinaia di migliaia di anni nei quali aveva percorso la sua strada avanti e indietro, implacabile, massiccio, là al Nord. C'erano i segni indelebili, impressi sui pendii di granito, lunghi e diritti, come scolpiti da una mano sicura di artista. A volte, potevamo tirare la slitta attraverso quelle graffiature naturali, come se si fosse trattato di strade.
Me la cavai meglio a tirare la slitta; potevo appoggiarmi alle cinghie, e il lavoro teneva caldo il mio corpo. Quando ci fermammo per mangiare, a mezzogiorno, mi sentii gelare, ebbi nausea, e non riuscii a mangiare nulla. Proseguimmo, salendo di nuovo, ora. La pioggia cadeva, e cadeva, e cadeva. Estraven si fermò sotto una grande tettoia naturale di roccia nera, a metà pomeriggio. Aveva rizzato la tenda, prima ancora che io mi fossi liberato dalle cinghie. Mi ordinò di entrare, e di sdraiarmi subito.