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Harhahad Thanern. Sul Gobrin. Il ventitreesimo giorno del nostro viaggio. Siamo sul Ghiaccio di Gobrin. Non appena ci siamo messi in marcia, questa mattina, abbiamo visto, solo a poche centinaia di metri dall'accampamento della notte, un sentiero che conduce direttamente al Ghiaccio, una strada soprelevata che descrive una curva, ampia e lastricata di cenere vulcanica, dai detriti e dagli abissi del ghiacciaio, in alto, attraverso le colline e le scogliere di ghiaccio. L'abbiamo percorsa, quella singolare passerella tra i ghiacci, come se avessimo marciato in parata lungo il Lungofiume del Sess. Siamo sul Ghiaccio. Siamo di nuovo diretti a est, verso casa.

Sono infettato dal piacere puro che Ai trae dal nostro successo. Considerata la situazione sobriamente, essa non è migliore di prima, quassù. Siamo sul bordo dell'altopiano di ghiaccio. Dei crepacci… alcuni ampi abbastanza da inghiottire dei villaggi, non casa per casa, ma tutto in una volta… corrono verso l'interno, a nord, a perdita d'occhio. Quasi tutti ci tagliano la strada, così anche noi dobbiamo andare a nord, e non a est. La superficie è terribile. Portiamo avanti la slitta, tra grandi mucchi e frammenti e spezzoni di ghiaccio, immensi detriti spinti in alto dalla tensione della grande coltre plastica di ghiaccio, tra e contro le Colline di Fuoco. I costoni spezzati dalla pressione hanno forme strane, torri rovesciate, giganti senza gambe, catapulte. Spesso un miglio all'inizio, il Ghiaccio qui si leva e si fa più spesso ancora, cercando di sommergere le montagne e di soffocare le bocche di fuoco con l'eterno silenzio del gelo. Qualche miglio a nord, un picco si leva dal Ghiaccio, il cono spoglio, aguzzo, aggraziato di un giovane vulcano; più giovane di migliaia di anni della coltre di ghiaccio che preme e spinge e travolge, frantumandosi in gorghi e ammucchiandosi in grandi blocchi e costoni scintillanti, e cadendo per precipizi oscuri, sopra i duemila metri di montagne più basse che non possiamo vedere.

Durante il giorno, voltandoci, abbiamo visto il fumo dell'eruzione di Drumner, sospeso dietro di noi come un tentacolo grigio-bruno che si protende dalla superficie del Ghiaccio. Un vento forte e costante soffia a livello del suolo da nord-est, ripulendo quest'aria di quota più alta dal pulviscolo e dal fetore del vomito del pianeta, che noi abbiamo respirato per giorni, appiattendo e spazzando via il fumo, dietro di noi, pressandolo a coprire, come un coperchio nero, i ghiacciai efferenti, le montagne più basse, le valli di pietre e morene, il resto della terra. Non c'è niente, dice il Ghiaccio, all'infuori del Ghiaccio… Ma il giovane vulcano là, a nord, ha un'altra parola che crede di dover dire.

Non nevica, una foschia alta copre il cielo. Una temperatura di -8° sull'altopiano, al tramonto. C'è una coltre di neve granulosa, di ghiaccio recente, e di vecchio ghiaccio, sotto il piede. Il ghiaccio fresco e insidioso, una sostanza viscida, azzurrognola, che è nascosta da un pulviscolo bianco. Siamo caduti entrambi, diverse volte. Su una lastra di ghiaccio simile, io sono scivolato bocconi, per più di tre metri. Ai, che tirava la slitta, si è piegato in due dal ridere. Mi ha chiesto scusa, e ha spiegato che credeva di essere lui la sola persona che su Gethen scivolasse sul ghiaccio.

Tredici miglia, oggi; ma se tentassimo di aumentare la velocità tra questi crepacci, tra i costoni e sul ghiaccio insidioso, ci consumeremmo dalla fatica, o subiremmo degli inconvenienti assai più gravi di una scivolata.

La luna è bassa, cupa come sangue rappreso; un grande alone brunito, iridescente, la circonda.

Guyrny Thanern. Un po' di neve, il vento si alza e la temperatura diminuisce. Anche oggi tredici miglia, che portano la distanza registrata da quando abbiamo lasciato il primo accampamento a 254 miglia. Abbiamo mantenuto una media di circa dieci miglia e mezzo al giorno; undici e mezzo, omettendo i due giorni passati ad aspettare la fine della tormenta. Il settantacinque per cento di queste miglia di fatiche e di lavoro non ci hanno fatto guadagnare terreno, rispetto alla nostra destinazione. Non siamo molto più vicini a Karhide, ora, di quanto non lo fossimo al momento della partenza. Ma ora abbiamo probabilità migliori, penso, di arrivarci.

Da quando siamo usciti dai fumi greveolenti del vulcano in eruzione, e dalla nera nuvola di cenere, il nostro spirito non è impegnato più soltanto nel lavoro e nell'apprensione, e dopo la cena parliamo sempre nella nostra tenda. Poiché io sono in kemmer, troverei più facile, certo, ignorare la presenza di Ai, ma questo è difficile in una tenda con due occupanti. Il guaio è, naturalmente, che lui, nel suo strano modo, è a sua volta in kemmer: sempre in kemmer. Deve trattarsi di una strana forma di desiderio, quella, assai ridotta, da dividere tra tutti i giorni dell'anno, senza intervalli, senza mai conoscere la scelta del sesso, ma esiste: e io sono qui, in kemmer. Questa notte, la mia estrema percezione fisica della sua presenza è stata piuttosto dura da ignorare, e io ero troppo stanco per tentare di sviarla, usando il non-trance, o qualsiasi altro canale offerto dalla mia disciplina. Finalmente lui mi ha chiesto se per caso non mi avesse offeso. Gli ho spiegato il mio silenzio, con un certo imbarazzo. Temevo che egli avesse riso di me. Dopotutto, lui non è più strano, più diverso, più anomalia sessuale di quanto non lo sia io: quassù, sul ghiaccio, ciascuno di noi è singolare, isolato, unico, io che sono tagliato fuori da quelli come me, dalla mia società e dalle sue regole, e lui che è tagliato fuori, allo stesso modo, da tutto ciò che ha conosciuto e gli appartiene. Qui non c'è un mondo pieno di altri getheniani, che possa spiegare e suffragare la mia esistenza. Noi siamo eguali, infine, eguali, alieni, soli. Lui non ha riso, naturalmente. Piuttosto, mi ha parlato con gentilezza che non sapevo esistesse in lui. Dopo qualche tempo, anche lui è arrivato a parlare d'isolamento, di solitudine.

— La vostra razza è spaventosamente sola, sul suo mondo. Non esistono altre specie di mammiferi. Non esistono altre specie ermafrodite. Non esistono animali intelligenti, neppure quanto basta per addomesticarli, per farne dei compagni, sia pure piccoli e insufficienti. Deve colorare violentemente il vostro modo di pensare, questa unicità. Non intendo parlare solo del pensiero scientifico, benché voi siate degli straordinari teorici, dei creatori d'ipotesi magistrali… è straordinario che siate arrivati a qualsiasi concetto d'evoluzione, avendo di fronte quell'abisso invalicabile tra voi e gli animali inferiori. No, non solo scientificamente: ma filosoficamente, emotivamente: essere così solitari, in un mondo così ostile, deve influenzare tutto di voi, le vostre visioni del mondo, del trascendente, del naturale, del soprannaturale, dei sentimenti.

— Gli Yomeshta direbbero che la singolarità dell'uomo è la sua divinità.

— Padroni e Signori della Terra, si. Altri culti, su altri mondi, sono giunti alla stessa conclusione. Questi tendono a essere i culti di civiltà dinamiche, aggressive, capaci di spezzare i legami ecologici. Orgoreyn appartiene a questo schema, a suo modo; almeno, gli Orgota sembrano muovere le cose, non le lasciano stare come sono. Cosa dicono gli Handdarata?