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Il linguaggio mentale era la sola cosa che io avessi da offrire a Estraven, di tutta la mia civiltà, di tutta la mia realtà aliena nella quale lui era così profondamente interessato. Potevo parlare e descrivere interminabilmente; ma era questo tutto ciò che avevo da offrirgli. In realtà, forse si tratta dell'unica cosa importante che noi abbiamo da offrire a Inverno. Ma non posso dire che la gratitudine fosse il motivo che mi spingeva a infrangere la Legge dell'Embargo Culturale. Non gli stavo saldando un debito. Certi debiti non si pagano mai. Estraven e io, semplicemente, eravamo arrivati a un punto nel quale dividevamo tutto quel che avevamo, e che fosse meritevole di essere diviso.

Immagino che si scoprirà che un rapporto sessuale sia possibile tra getheniani bisessuati e gli esseri umani di tipo hainiano, con un solo sesso, benché questi rapporti debbano essere inevitabilmente sterili. Questo rimane da dimostrare; Estraven e io non provammo nulla, all'infuori, forse, di un punto assai più sottile. La cosa più vicina a una crisi, che i nostri desideri sessuali ci portarono, avvenne in una notte nei primi tempi del viaggio, la nostra seconda notte sul Ghiaccio. Avevamo trascorso tutto il giorno a lottare e a muoverci avanti e indietro, nella regione dei grandi crepacci che si stendeva a est delle Colline di Fuoco. Eravamo stanchi quella sera, ma euforici, certi che una rotta sicura e diritta si sarebbe aperta davanti a noi, ben presto. Ma dopo la cena Estraven si era fatto sempre più taciturno, e aveva bruscamente interrotto i miei discorsi. Alla fine gli avevo detto, dopo un diretto rimprovero:

— Harth, se ho detto di nuovo qualcosa di sbagliato, vi prego di dirmi di che si tratta.

Lui aveva taciuto.

— Ho commesso qualche errore di shifgrethor. Mi dispiace; non posso imparare. Non ho mai capito neppure, in realtà, il significato della parola.

— Shifgrethor? Deriva da un antico sinonimo di ombra.

Eravamo rimasti entrambi in silenzio per qualche tempo, e poi lui mi aveva guardato direttamente, con uno sguardo sicuro, e gentile. Il suo viso, nella luce rossigna, era dolce, vulnerabile, e remoto, come il viso di una donna che vi guardi dal profondo dei suoi pensieri, senza parlare.

E allora avevo capito di nuovo, e definitivamente, quello che avevo avuto sempre paura di capire, di vedere, e avevo finto di non vedere in lui: che lui era una donna, almeno quanto era un uomo. Ogni bisogno di spiegare le sorgenti di quella paura era scomparso con la paura; e io ero rimasto, finalmente, con un'accettazione di lui come era. Fino ad allora lo avevo rifiutato, lo avevo respinto, gli avevo rifiutato la sua stessa realtà. Aveva avuto ragione, completamente ragione, nel dire che lui, l'unica persona su Gethen che mi avesse creduto, che avesse avuto una totale fiducia in me, fosse anche l'unica persona su Gethen alla quale io non avevo creduto, non avevo dato la mia fiducia. Perché lui era il solo che mi aveva interamente accettato come un essere umano: che mi aveva apprezzato personalmente, e mi aveva offerto una completa lealtà personale: e che di conseguenza aveva chiesto a me un uguale grado di riconoscimento, di accettazione. E io non ero stato disposto a dargli questo. Avevo avuto paura. Non avevo voluto dare la mia fiducia, la mia amicizia a un uomo che era una donna, a una donna che era un uomo.

Mi aveva spiegato, semplicemente e rigidamente, che lui era in kemmer, e che aveva cercato di evitarmi, entro i limiti nei quali uno di noi poteva evitare l'altro.

— Non devo toccarvi — mi aveva detto, con enorme fatica; dicendo questo, aveva distolto lo sguardo.

Gli avevo risposto:

— Capisco. Sono completamente d'accordo.

Perché mi sembrava, e credo che sembrasse anche a lui, che fosse dalla tensione sessuale che esisteva tra di noi, ora ammessa e compresa, ma non soddisfatta, che la grande e improvvisa sicurezza di amicizia tra noi fosse sorta: un'amicizia della quale ciascuno di noi aveva un enorme bisogno, nell'esilio, e che era stata già tanto dimostrata, nei giorni e nelle notti del nostro amaro, difficile viaggio, che avrebbe già potuto essere chiamata, allora come più tardi, amore. Ma era dalle differenze che esistevano tra noi, non dalle affinità o dalle somiglianze, ma dalla differenza, che quell'amore veniva: ed esso era un ponte, l'unico ponte, che attraversava ciò che ci divideva. Per noi, incontrare la sessualità avrebbe significato incontrarci di nuovo come alieni. Ci eravamo toccati, nell'unico modo in cui potevamo toccarci. Avevamo lasciato la cosa a questo punto. Non so se abbiamo avuto ragione.

Abbiamo parlato ancora, quella notte, e ricordo di aver faticato molto a rispondere coerentemente, quando lui mi aveva chiesto che cos'erano le donne. Eravamo stati entrambi molto rigidi e prudenti tra noi, nei due giorni successivi. Un amore profondo tra due persone comprende, dopotutto, il potere e l'occasione di fare un male profondo. Prima di quella notte, mai avevo pensato di poter ferire, o far soffrire, Estraven.

Ora che le barriere erano cadute, la limitazione, secondo i miei termini, della nostra conversazione, della comprensione reciproca sembrava intollerabile, almeno a me. Lo stesso modo di parlare, tra noi, il non usare i nostri nomi, il darci ancora quel «voi» che aveva un senso a Erhenrang, ma non qui, erano altrettanti ostacoli che avvertivo, nella nostra nuova intimità. Ben presto, due o tre notti più tardi, avevo detto al mio compagno, nel finire la cena… un festino speciale, con molto zucchero e porridge di kadik, per festeggiare un percorso di venti miglia in un giorno…

— La primavera scorsa, quella notte, nella Dimora Rossa dell'Angolo, mi avevate detto che avreste voluto saperne di più, sul linguaggio paraverbale del quale vi avevo parlato.

— Sì, infatti.

— Volete vedere se io posso insegnarvi a parlare in quel linguaggio?

Lui aveva riso.

— Volete cogliermi a mentire.

— Se mai mi avete mentito, è stato molto, molto tempo fa, e in un altro paese.

Lui era una persona onesta, ma raramente era diretto, nei suoi modi. Questo lo aveva solleticato, e così aveva detto.

— In un altro paese potrei dirvi delle altre menzogne. Ma pensavo che vi fosse proibito d'insegnare la vostra scienza mentale a… ai nativi, finché noi non fossimo entrati nell'Ecumene.

— Non proibito. Non si fa. Io lo farò, però, se non vi dispiace. E se potrò riuscirci. Io non sono un Istruttore.

— Esistono dei maestri particolari per questa capacità?

— Sì. Non su Alterra, dove c'è un'altissima percentuale di sensibilità naturale, e… si dice… le madri parlano mentalmente ai loro bambini non ancora nati. Non so cosa rispondano i bambini. Ma la maggior parte di noi ha dovuto imparare, come se fosse stata una lingua straniera. O meglio, come se fosse stata la nostra lingua natale, ma imparata molto, molto tardi.

Credo che lui avesse capito i motivi che mi spingevano all'offerta d'insegnargli quella capacità, e desiderava imparare con tutte le sue forze. Iniziammo perciò a studiare, lui, e a insegnare, io. Cercai di ricordare meglio che potevo il periodo della mia Istruzione, e quello che avevo appreso, e come e quando lo avevo appreso, all'età di dodici anni. Gli dissi di liberare la mente, di sgombrarla da ogni pensiero, di lasciarla nel buio. Questo lo fece, senza dubbio, con maggiore prontezza e completezza di quanto mai io avessi potuto farlo; era un adepto dell'Handdara, dopotutto. E poi gli parlai con la mente, nella maniera più chiara che mi era possibile. Nessun risultato. Tentammo di nuovo. Dato che non si può comunicare con la mente, fino a quando una comunicazione non è stata ricevuta, fino a quando la potenzialità telepatica non è stata sensibilizzata da una ricezione chiara, fui costretto a cercare per primo di raggiungerlo. Cercai di farlo, tentai per più di mezz'ora, concentrandomi fino a quando non mi sentii la mente stanca. Lui sembrava abbattuto.