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— Basta, basta — disse, a voce alta; e dopo qualche tempo finalmente ci addormentammo.

Per lui non fu mai facile. Non che gli mancasse il talento, o che non potesse sviluppare le tecniche, ma la cosa lo turbava profondamente, e non riusciva a darla per scontata. Rapidamente imparò ad alzare le barriere, ma credo che non fosse mai certo di poter contare su di esse. Forse noi tutti ci eravamo comportati così, quando i primi Istruttori erano ritornati, centinaia di anni prima, dal Mondo di Rokanan, per insegnarci quella che venne chiamata «Ultima Arte». Forse un getheniano, essendo singolarmente completo, sente il dialogo telepatico come una violazione di questa condizione completa, una breccia nell'integrità che per lui è difficile, molto difficile tollerare. Forse si trattava del carattere stesso di Estraven, nel quale il candore e la riservatezza erano entrambi forti: ogni parola che lui diceva si levava da un profondo silenzio. Udiva la mia voce, nel dialogo telepatico, come la voce di un morto, la voce di suo fratello. Io non sapevo che cosa, oltre all'amore e alla morte, esistesse tra lui e quel fratello, ma sapevo che, ogni volta che io gli parlavo telepaticamente, qualcosa in lui sobbalzava, si ritraeva, come se io avessi toccato una ferita non ancora rimarginata. Così quell'intimità della mente stabilita tra noi due era un legame, certo, ma un legame oscuro e austero, che non tanto ammetteva altra luce (come mi ero aspettato) bensì mostrava le misure e dimensioni delle tenebre.

E giorno dopo giorno, faticosamente, lentamente, avanzavamo, verso est, sulla immensa pianura di ghiaccio. Il punto mediano, nel tempo, del nostro viaggio, secondo il programma, e cioè il trentacinquesimo giorno, Odorny Anner, ci trovò indietro, rispetto al punto mediano nello spazio. Secondo il misuratore della slitta, noi avevamo realmente viaggiato per quattrocento miglia, ma probabilmente solo tre quarti di quella distanza valevano come reale avanzata, e potevamo valutare solo approssimativamente quanto fosse il nostro vero ritardo, e quanto ancora rimaneva da percorrere. Avevamo speso giorni, miglia, razioni nella nostra lunga fatica per salire sul Ghiaccio. Estraven non era preoccupato quanto me, dalle centinaia di miglia che ancora si stendevano davanti a noi.

— La slitta è più leggera — mi disse, quel giorno. — Verso la fine sarà ancora più leggera; e potremo diminuire le razioni, se sarà necessario. Abbiamo mangiato molto bene, lo sai.

Pensai che facesse dell'ironia, ma avrei dovuto saperlo, che non era così.

Nel quarantesimo giorno e nei due successivi, fummo bloccati da una tormenta. Durante quelle lunghe ore di inattività nella tenda, Estraven dormì quasi in continuazione, e non mangiò nulla, pur bevendo orsh o acqua zuccherata, alle ore dei pasti. Insisté perché io mangiassi, anche se usando metà razioni.

— Non hai esperienza di digiuno — mi disse.

Fui umiliato da queste parole.

— Quanta ne puoi avere, tu… Lord di un Dominio, e Primo Ministro?…

— Genry, noi pratichiamo il digiuno e la privazione dal cibo finché non siamo degli esperti in questo campo. Mi è stato insegnato il digiuno quando ero bambino, a casa, a Estre, e poi dagli Handdarata nella Fortezza di Rotherer. A Erhenrang ho perduto la pratica, è vero, ma ho ricominciato ad addestrarmi a Mishnory… Fa' come ti dico, amico mio; so quel che faccio.

Era vero. Sia per me che per lui.

Ci furono altri quattro giorni di gelo pungente, con temperature mai superiori ai quindici gradi sotto lo zero, e poi venne un'altra tormenta, che portata da un vento d'uragano ci giunse addosso da oriente. Pochi minuti dopo le prime violente folate, la neve giunse così fitta, sulle ali del vento, che non riuscii più a vedere Estraven, il quale era a meno di due metri da me. Avevo voltato le spalle a lui e alla slitta e alla neve appiccicosa, soffocante, accecante, per riprendere fiato, e quando un attimo dopo mi voltai, lui non c'era più. La slitta era scomparsa. Non c'era nulla, là. Feci qualche passo, nella direzione in cui slitta ed Estraven si erano trovati, e cercai a tentoni. Gridai, e non riuscii a udire la mia stessa voce. Ero sordo e solo in un universo solido, reso solido da minuscoli granelli di neve pungente, grigia, implacabile. Fui preso dal panico e cominciai ad avanzare a tentoni, chiamando freneticamente con la mente:

Therem!

Proprio sotto la mia mano, inginocchiato, Estraven mi disse:

— Avanti, aiutami a montare la tenda.

Lo feci, e non feci il minimo accenno, mai, al mio momento di panico. Non ce ne fu bisogno.

Questa tormenta durò per due giorni; così furono cinque i giorni perduti, e ce ne sarebbero stati altri. Nimmer e Anner sono i mesi delle grandi bufere.

— Cominciamo a fare delle parti molto sottili, vero? — dissi una notte, misurando la nostra razione di gichy-michy, e affondandola nell'acqua bollente.

Lui mi guardò. Il suo viso largo, fermo, mostrava la perdita di peso nelle ombre profonde sotto gli zigomi, gli occhi erano infossati e la bocca era gonfia e screpolata. Dio solo sa quale fosse il mio aspetto, se quello di Estraven era così. Lui sorrise:

— Con fortuna ce la faremo, e senza fortuna non ce la faremo.

Era quello che aveva detto fin dall'inizio. Con tutte le mie ansie, con il mio senso di compiere un ultimo disperato tentativo, una partita con la morte, e così via, non ero stato sufficientemente realistico da credergli. E perfino adesso io pensavo, Certo, dopo avere lavorato così duramente…

Ma il Ghiaccio non sapeva come e quanto duramente avessimo lavorato. E perché avrebbe dovuto saperlo? La proporzione è rispettata.

— Come va la tua fortuna, Therem? — dissi, alla fine.

Lui non sorrise, a queste parole. E non rispose. Solo, dopo qualche tempo, disse:

— Ho pensato a tutti loro, laggiù.

Laggiù, per noi, significava ormai il sud, il mondo che si stendeva sotto l'altopiano di ghiaccio, la regione della terra, degli uomini, delle strade, delle città, tutte cose che era diventato difficile immaginare esistessero realmente.

— Tu sai che ho avvertito il re di quello che ti accadeva, il giorno in cui sono partito da Mishnory. Gli ho mandato a dire ciò che mi aveva detto Shusgis, che tu saresti stato mandato alla Fattoria Pulefen. Allora non sono riuscito a stabilire con chiarezza il mio intento, ma ho semplicemente seguito il mio impulso. Da allora, ho meditato su quell'impulso. Può accadere qualcosa di simile a quanto ti dirò ora: il re vedrà una possibilità di giocare lo shifgrethor. Tibe lo consiglierà di non farlo, ma Argaven dovrebbe essersi già stancato un poco di Tibe, ormai, e potrà ignorare il suo consiglio. Farà delle indagini. Dov'è l'Inviato, l'ospite di Karhide?… Mishnory mentirà. È morto di febbre nera quest'autunno, è davvero molto deprecabile. … Allora come mai noi siamo informati dalla nostra Ambasciata che egli si trova nella Fattoria Pulefen? … non si trova là, andate voi stessi a cercarlo. … No, no, naturalmente no, accettiamo la parola dei Commensali di Orgoreyn… Ma poche settimane dopo questi scambi di domande e risposte, l'Inviato appare in Nord Karhide, dopo essere evaso dalla Fattoria Pulefen. Costernazione a Mishnory; indignazione a Erhenrang. I Commensali perdono la faccia, perché vengono colti in flagrante menzogna. Tu sarai un tesoro, un fratello di focolare per troppo tempo. Dovrai chiamare subito la tua Nave stellare, alla prima occasione che riuscirai ad avere. Porta la tua gente in Karhide, e completa la tua missione, immediatamente, prima che Argaven abbia avuto il tempo di vedere in te il possibile nemico, prima che Tibe o qualche altro consigliere spaventi il re ancora una volta, giocando sulla sua pazzia. Se lui fa il patto con te, lo manterrà. Romperlo vorrebbe dire spezzare anche il suo shifgrethor. I sovrani di Harge mantengono le loro promesse. Ma devi agire in fretta, e fare discendere presto la Nave.

— Lo farò, se riceverò anche il più piccolo segno di benvenuto.