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— No: perdona il consiglio che ti do ora, ma non devi aspettare il benvenuto. Ti sarà dato il benvenuto, penso. Così pure alla Nave. Karhide è stato profondamente umiliato, gravemente umiliato, nell'ultimo mezzo-anno. Tu offrirai ad Argaven l'occasione per girare le tavole. Credo che egli saprà afferrare l'occasione.

— Bene. Ma tu, nel frattempo…

— Io sono Estraven il Traditore. Io non ho assolutamente nulla a che fare con te.

— All'inizio.

— All'inizio — ammise lui.

— Potrai nasconderti, se ci sarà pericolo, all'inizio?

— Oh sì, certamente.

Il nostro cibo era pronto e tacemmo. Mangiare era così importante, così bello ed essenziale, in quella situazione, che noi non parlavamo più, mentre mangiavamo; il tabù era adesso nella sua forma completa, forse nella forma originale, non veniva pronunciata una parola fino a quando l'ultima briciola non era consumata. Quando il pasto fu finito, egli disse:

— Ebbene, spero di avere visto giusto. Tu vorrai… tu vorrai… tu vorrai perdonarmi…

— Per avermi dato un consiglio diretto? — dissi, perché esistevano certe cose che finalmente ero arrivato a comprendere. — Naturalmente sì, Therem. Davvero, e come puoi dubitarne? Lo sai che non ho uno shifgrethor da abbassare. — Questo lo divertì, ma era ancora pensieroso.

— Perché — disse, alla fine, — perché sei venuto solo… perché sei stato mandato qui solo? Ogni cosa, anche dopo dipenderà dall'arrivo di quella nave. Perché tutto è stato reso così difficile per te, e per noi?

— È l'usanza dell'Ecumene, e questa usanza è fondata su diversi motivi. Anche se, in realtà, comincio a domandarmi se mai io abbia capito questi motivi. Pensavo che fosse per voi, che io dovessi venire da solo, così evidentemente solo, così vulnerabile, al punto che in me stesso non fosse possibile raffigurare alcuna minaccia, che la mia presenza non potesse alterare alcun equilibrio: non un'invasione, ma soltanto un messaggero. Ma c'è qualcosa di più; la spiegazione non è così limitata. Da solo, io non posso cambiare il vostro mondo. Ma posso venire cambiato da esso. Da solo, io devo ascoltare, e non parlare soltanto. Da solo, la relazione che alla fine io stabilisco, se ci riesco, non è impersonale e non è solo politica: è individuale, è personale, è più e meno che politica, allo stesso tempo. Non Noi e Loro; non Io e il Pianeta; ma Io e Te. Non politica, non pragmatica, ma mistica. In un certo senso l'Ecumene non è un corpo politico, ma un corpo mistico. Esso considera gli inizi di estrema importanza. Gli inizi, e i mezzi. La dottrina dell'Ecumene è esattamente l'opposto della dottrina secondo la quale il fine giustifica i mezzi. Si procede, perciò, in maniere sottili, e lente, e strane, rischiose; si agisce a somiglianza dell'evoluzione, che è, in un certo senso, il modello… Così sono stato mandato solo, per il vostro bene? O per il mio? Non lo so. Sì, questo ha reso le cose più difficili. Ma io potrei chiederti, con lo stesso profitto, perché voi getheniani non avete mai trovato conveniente costruire dei veicoli volanti. Rubando un piccolo aeroplano, io e te ci saremmo risparmiati molte difficoltà!

— Come potrebbe mai venire in testa a un uomo ragionevole la possibilità di volare? — disse con fermezza Estraven. Era una reazione giusta, su di un mondo dove nessuna creatura vivente aveva le ali, e perfino gli angeli della Gerarchia Yomesh del Santo non volano, ma galleggiano soltanto, senz'ali, scendendo mollemente sulla terra, come morbidi fiocchi di neve, come i semi portati dal vento di quel mondo senza fiori.

Verso la metà di Nimmer, dopo molto vento e molto freddo pungente, per diversi giorni ci trovammo in un tempo clemente. L'aria era meno perturbata. Se c'era bufera, era a sud, laggiù, e noi del luogo nella tormenta, all'interno della tormenta, avevamo soltanto una foschia perenne, senza vento. Dapprima la foschia fu sottile, così che l'aria parve vagamente radiante, di una luce solare uguale, senza sorgente visibile, riflessa da nubi e neve a un tempo, dall'alto e dal basso. Di notte, il maltempo era ritornato ad addensarsi. Tutta la lucentezza era scomparsa, senza lasciare niente. Eravamo usciti dalla tenda, e ci eravamo trovati nel nulla. Niente. Slitta e tenda erano là, Estraven era in piedi accanto a me, ma né lui né io avevamo un'ombra. C'era una luce spenta, livida, tutt'intorno, ovunque. Quando camminammo sulla neve rassodata, nessuna ombra mostrò le impronte. Non lasciavamo traccia. Non lasciavamo più traccia. Slitta, tenda, lui, io; niente altro, niente di niente. Non c'era sole, non c'era cielo, non c'era orizzonte, non c'era mondo. Un vuoto biancastro, nel quale sembravamo sospesi. L'illusione era così completa, che faticai a mantenere l'equilibrio. I miei orecchi interiori furono usati per confermare quello che i miei occhi registravano, sulla mia posizione; gli occhi non trovavano nulla; avrei potuto essere cieco. Tutto andò bene quando si trattò di caricare la slitta, ma in viaggio, senza niente davanti, niente da guardare, niente che l'occhio potesse toccare, tutto ciò fu all'inizio sgradevole e poi estenuante. Eravamo sugli sci, su una superficie liscia e favorevole al viaggio, neve granulosa, ghiacciata, senza sastrugi, e solida… questo ero certo… per millecinquecento, duemila metri sotto i nostri piedi. Avrebbe dovuto essere tutto molto bello. Un momento buono, uno dei migliori del viaggio. Ma continuammo a rallentare, a cercare a tentoni la strada attraverso la pianura completamente libera da qualsiasi ostacolo, e ci volle un intenso sforzo di volontà per accelerare, per ritrovare una velocità normale, abituale, nella nostra marcia. Ogni lievissima variazione della superficie veniva con un sobbalzo violento… come nel salire le scale, il gradino inaspettato o il gradino aspettato ma assente… perché non potevamo vedere davanti a noi; non c'era alcuna ombra a mostrarlo. Sciammo alla cieca, con gli occhi aperti. Un giorno dopo l'altro, nulla cambiava, era sempre così, e noi cominciammo ad abbreviare i nostri percorsi giornalieri, perché a mezzogiorno entrambi stavamo già sudando e tremando per la tensione e la fatica. Arrivai a sperare che venisse la neve, che venisse la tormenta, che venisse qualcosa, qualsiasi cosa; ma un mattino dopo l'altro, uscivamo dalla tenda e ci ritrovavamo nel vuoto, il tempo bianco, quello che Estraven chiamava la Non-ombra.

Un giorno, verso mezzogiorno, Odorny Nimmer, il sessantunesimo giorno del viaggio, quell'impalpabile, cieco nulla intorno a noi cominciò a muoversi, a sussultare, a scorrere, e ad agitare invisibili tentacoli. Pensai che fosse uno scherzo giocato dai miei occhi, come già era accaduto spesso, e prestai scarsa attenzione al fievole, assurdo movimento dell'aria, fino a quando, improvvisamente, riuscii a scorgere per un istante uno squarcio del sole fioco, piccolo, spento, che stava sopra di noi. E abbassando lo sguardo dal sole, guardando avanti, direttamente, vidi un'enorme forma nera uscire dal vuoto, minacciosa, e venire verso di noi. Tentacoli neri si dimenarono in alto, tesi, cercando qualcosa. Mi fermai bruscamente dov'ero, facendo sussultare Estraven sugli sci, perché stavamo entrambi tirando la slitta.

— Che cos'è?

Fissò le nere forme mostruose nascoste nella nebbia, e alla fine disse:

— Le rocce… devono essere le Rocce di Esherhoth. — E continuò a sciare. Eravamo miglia e miglia distanti dalle cose, che mi erano parse appena più in là della distanza del mio braccio. Quando il tempo bianco si trasformò in una nebbia bassa e fitta, e poi finalmente si rasserenò, le vedemmo chiaramente, distintamente, prima del tramonto: nunatak, grandi pinnacoli scoscesi e aguzzi e scomposti di roccia che sporgevano dal ghiaccio, rocce delle quali non si vedeva più di quanto si vede di un iceberg in mare: fredde montagne affogate nel ghiaccio, morte da eoni immemorabili.

Ci indicarono che eravamo a nord della nostra strada più breve, se potevamo fidarci delle pessime indicazioni della pessima mappa che era tutto quel che avevamo. Il giorno dopo, per la prima volta, deviammo un po' a sud-est.