— Dobbiamo andarcene presto da qui, Genry.
Lo ricordo bene, in piedi, nelle ombre della stanza illuminata dal fuoco, scalzo, e con indosso solo i larghi calzoni di pelliccia che il capo gli aveva dato. Nell'intimità, e in quello che considerano il calore, delle loro case, i karhidiani spesso girano seminudi, o nudi del tutto. Nel nostro viaggio, Estraven aveva perduto tutta la solidità compatta, uniforme che contraddistingue il fisico getheniano; era magro e segnato, e il suo viso era bruciato dal freddo, quasi che fosse stato esposto al fuoco. Era una nera, dura, e sempre sfuggente figura in quella luce rapida, guizzante e irrequieta.
— Dove?
— A sud-ovest, penso. Verso la frontiera. Il nostro primo compito è quello di trovare una radio trasmittente, abbastanza potente da permetterti di chiamare la tua nave. Dopo questo potremo trovare un nascondiglio, oppure tornarcene in Orgoreyn per qualche tempo, allo scopo di evitare che una punizione cada su coloro che qui ci stanno aiutando.
— Come farai a ritornare in Orgoreyn?
— Come ho fatto l'altra volta… attraverso la frontiera. Gli Orgota non hanno niente contro di me.
— Dove potremo trovare una trasmittente?
— Non prima di Sassinoth.
Sobbalzai. E lui sorrise.
— Non ce ne sono, più vicino?
— Centocinquanta miglia, non di più; abbiamo percorso più strada, su un terreno peggiore. Ci sono delle strade ovunque; la gente ci accoglierà; potremo ottenere anche un passaggio, su una slitta a motore.
Assentii, ma ero depresso all'idea di un'altra fase del nostro viaggio invernale, e questa volta non verso un rifugio, ma di nuovo verso quella maledetta frontiera, dove Estraven avrebbe potuto ritornare in esilio, lasciandomi solo. La prospettiva era brutta.
Meditai su queste cose, e alla fine dissi:
— Ci sarà una condizione che Karhide dovrà portare a compimento, prima di poter entrare nell'Ecumene. Argaven deve revocare il tuo esilio.
Lui non disse niente, ma rimase a guardare il fuoco.
— Parlo sul serio — insistei. — Prima questo, poi il resto.
— Ti ringrazio, Genry — mi disse. La sua voce, quando parlava piano come in quel momento, aveva il timbro di una voce di donna, calda e carezzevole. Mi guardò, gentilmente, senza sorridere. — Ma è ormai molto tempo che non mi aspetto di vedere più la mia casa. Sono un esule ormai da vent'anni, vedi. Venti anni di esilio. Questo bando non è molto diverso. Saprò badare a me stesso; e tu farai bene a pensare a te, e al tuo Ecumene; e questo lo devi fare da solo. Ma stiamo dicendo tutte queste cose troppo presto. Di' alla tua nave di scendere! Quando sarà fatto questo, allora penserò a quel che segue.
Restammo per altri due giorni a Kurkurast, riposandoci e nutrendoci bene, aspettando un pressaneve che doveva giungere dal sud, e ci avrebbe dato un passaggio al ritorno. I nostri ospiti fecero narrare a Estraven l'intera storia del nostro attraversamento del Ghiaccio. Estraven la narrò come solo una persona nata e cresciuta in una tradizione letteraria tramandata oralmente avrebbe potuto narrare una storia, così che la «traversata del Gobrin» divenne una vera saga epica, piena di locuzioni tradizionali e perfino di episodi classici, rimanendo, malgrado ciò, esatta e vivida, dal fuoco sulfureo e dalla nube nera e ostile del passo tra Drumner e Dremegole agli uragani di vento urlanti che uscivano dalle gole montuose per spazzare con violenza la Baia di Guthen; senza trascurare degli interludi comici, come la sua caduta nel crepaccio, e mistici, quando egli parlò dei suoni e dei silenzi del Ghiaccio, del tempo bianco dove le ombre non esistevano, delle tenebre della notte. Io ascoltai, affascinato come tutti gli altri, fissando il volto scuro del mio amico.
Lasciammo Kurkurast all'interno della cabina di un pressaneve; stipati come sardine, a stretto contatto di gomito l'uno dell'altro; un pressaneve era un potente veicolo a motore che spianava e pressava la neve sulle strade di Karhide, il metodo più sicuro, e forse l'unico, per mantenere aperte le strade durante l'inverno; perché il tentativo di usare degli spartineve per rimuovere la bianca coltre delle strade, tenendole sgombre, avrebbe occupato metà del tempo e del denaro del regno, e d'inverno, comunque, tutto il traffico si volge sui pattini. Il pressaneve avanzò alla velocità di due miglia all'ora, e ci portò nel villaggio seguente, il più vicino a sud di Kurkurast, in piena notte. In questo villaggio, come sempre, ci venne dato il benvenuto, e fummo accolti, sfamati, e ospitati per la notte; il giorno dopo partimmo di là a piedi. Eravamo ora all'interno delle colline costiere che schermano l'entroterra dall'impeto maggiore del vento del nord che spira nella Baia di Guthen, riparati da quella barriera naturale, in una regione più popolata, e così andammo non da un accampamento all'altro, ma da un Focolare all'altro. Un paio di volte ottenemmo dei passaggi da slitte a motore, una volta per più di trenta miglia. Le strade, malgrado le frequenti e copiose precipitazioni nevose, erano ben pressate, e chiaramente tracciate e riconoscibili. C'era sempre del cibo nei nostri zaini, un ricordo degli ospiti della notte precedente; alla fine del percorso di una giornata, c'era sempre un tetto, e c'era sempre un fuoco.
Eppure quegli otto o nove giorni di facile viaggio, di tranquillo procedere attraverso una terra ospitale, furono la parte più dura e più spaventosa di tutto il nostro viaggio, peggiore ancora della scalata fino al ghiacciaio, peggiore ancora degli ultimi giorni di fame e stenti. La saga era finita, apparteneva al Ghiaccio. Eravamo molto stanchi. Stavamo andando nella direzione sbagliata. Non c'era più alcuna gioia, in noi.
— A volte bisogna andare contro a come gira la ruota — disse Estraven, più volte. Era fiero come sempre, ma nel suo modo di camminare, nella sua voce, nel suo atteggiamento, il vigore era stato sostituito dalla pazienza, e la certezza da una testarda risoluzione. Era assai taciturno, ora, né voleva parlare molto con me telepaticamente.
Giungemmo a Sassinoth. Una città di molte migliaia di abitanti, inerpicata sulle colline, che dominavano l'Ey ghiacciato; tetti bianchi, pareti grige, colline chiazzate dal nero di foreste e sporgenze rocciose, campi e fiumi bianchi; dall'altra parte del fiume, la contesa Valle di Sinoth, tutta bianca…
Giungemmo là quasi a mani vuote. Quasi tutto quel che ci era rimasto, dell'equipaggiamento usato nella traversata del Ghiaccio, era stato dato agli ospiti gentili che avevamo trovato lungo la strada, e ormai ci rimanevano soltanto la stufa Chabe, gli sci, e gli abiti che indossavamo. Così, leggeri, sgravati dal carico che ci aveva accompagnati nelle ore e nei giorni della traversata, procedemmo per la nostra strada, chiedendo informazioni sulla via da percorrere solo un paio di volte, non entrando nella città, ma dirigendoci verso una fattoria vicina. Era un posto misero, che non faceva parte di un Dominio, ma era soltanto una fattoria indipendente, sotto l'Amministrazione della Valle di Sinoth. Quando Estraven era stato un giovane segretario di quell'Amministrazione, il proprietario era stato un suo amico, e anzi era stato Estraven a comprare quella fattoria per lui, un anno o due prima, quando era stato intento ad aiutare la popolazione a stabilirsi a est dell'Ey, nella speranza di eliminare i motivi della disputa sulla proprietà della Valle di Sinoth. Fu lo stesso fattore ad aprirci la porta, un uomo massiccio, dalla voce sommessa, che aveva circa l'età di Estraven. Il suo nome era Thessicher.