Argaven era in piedi di fronte al focolare centrale, e più grande, dei tre che si trovavano nella sala, ed era su un basso e ampio palco, o piattaforma: una bassa figura nella penombra purpurea della sala immensa, una figura grassoccia, eretta, scura e abbastanza indistinta, nei lineamenti, e l'unico segno di distinzione era lo scintillio del grosso anello-sigillo che portava al pollice.
Mi fermai di fronte al bordo del palco reale e, seguendo le istruzioni che mi erano state date, non feci e non dissi niente.
— Salite, signor Ai, venite avanti. Sedetevi.
Obbedii, occupando la poltrona a destra del focolare centrale. In tutto questo cerimoniale ero stato istruito con rigore. Argaven non si mise a sedere; rimase in piedi, a meno di tre metri da me, con le fiamme vivide e ruggenti alle sue spalle, e dopo qualche tempo disse:
— Ditemi quel che avete da dirmi, signor Ai. Dicono che voi portate un messaggio.
Il viso che rivolse a me, sul quale il gioco della luce del fuoco e delle ombre disegnava crateri e colorava di porpora, era piatto e crudele come la luna, la fosca luna sanguigna di Inverno. Argaven era meno regale, meno virile di quanto non sembrasse visto da una certa distanza, tra i suoi cortigiani. La sua voce era sottile, ed egli teneva la sua testa fiera, da demente, piegata a un'angolazione di bizzarra arroganza.
— Mio signore, quel che avevo da dire è uscito dalla mia testa. Solo in questo momento ho appreso della disgrazia caduta su Lord Estraven.
A queste parole Argaven sorrise, un sorriso sforzato, teso, vitreo. Fece una risata stridula, la risata di una donna in collera che finge di essere divertita.
— Maledizione a lui — disse, — a quell'orgoglioso, impostore, spergiuro traditore! Avete cenato con lui questa notte, eh? E lui vi ha detto quanto fosse grande il suo potere, e con quale facilità governasse il suo re, e come mi avreste trovato facile da trattare, poiché mi aveva parlato di voi… eh? È questo che vi ha detto, signor Ai?
Esitai.
— Vi dirò quel che mi ha detto di voi, se vi interessa saperlo. Mi ha consigliato di rifiutarvi l'udienza, di tenervi ad aspettare, e magari di mandarvi via, in Orgoreyn o nelle Isole. Ha continuato a dirmelo per tutto questo mezzo mese, che sia maledetta la sua insolenza! È lui che è finito in Orgoreyn, ah ah ah!… — Di nuovo la risata stridula, falsa, ed egli batté insieme le mani, ridendo. Subito una guardia silenziosa apparve tra i tendaggi, alla fine del palco regale. Argaven ringhiò e la guardia scomparve. Ancora ridendo e ancora ringhiando, Argaven si avvicinò ancora e mi fissò direttamente. Le iridi nere dei suoi occhi scintillavano, e assumevano una strana colorazione arancione. Ero ben più spaventato di lui di quanto non mi fossi aspettato.
Non riuscivo a vedere una strada da seguire, tra tutte quelle incoerenze, che non fosse quella del candore. Dissi:
— Posso soltanto chiedervi, mio signore, se mi considera implicato nel delitto di Estraven?
— Voi? No. — Mi fissò ancor più attentamente. — Non so cosa diavolo siate voi, signor Ai, un fenomeno sessuale o un mostro artificiale o un visitatore venuto dai Dominii del Vuoto, ma voi non siete un traditore, siete stato semplicemente lo strumento di un traditore. Io non punisco gli strumenti. Essi fanno del male solo nelle mani di un cattivo operaio. Lasciate che vi dia qualche consiglio. — Argaven disse questo con una curiosa enfasi, e soddisfazione, e in quel momento mi venne in mente che nessun altro, in due anni, mi aveva mai dato un consiglio, neppure Estraven nei momenti in cui più si era rivelato servizievole. Gli altri rispondevano alle domande, ma non davano mai apertamente un consiglio. Doveva avere a che fare con lo shifgrethor. — Non lasciate che nessun altro si serva di voi, signor Ai — stava dicendo il re. — Tenetevi al di fuori delle fazioni. Dite le vostre menzogne, compite le vostre imprese, fate i vostri fatti. E non fidatevi di nessuno. Questo lo sapete? Non fidatevi di nessuno. Maledetto quel bugiardo traditore a sangue freddo, io mi fidavo di lui. Sono stato io a mettere la catena d'argento intorno al suo dannato collo. Vorrei averlo impiccato, invece, con quella catena. Non mi sono mai fidato di lui. Mai. Non fidatevi di nessuno. Lasciatelo morire di stenti nelle fogne di Mishnory, lasciatelo andare a caccia di rifiuti, lasciate che le sue viscere marciscano, non sia mai… — Re Argaven rabbrividì, parve soffocare, riprese fiato con un rumore strozzato, e mi voltò le spalle. Colpì con la punta del piede i ceppi del grande fuoco, fino a quando le scintille non volteggiarono fitte intorno, fino al suo volto, e gli caddero sui capelli a sulla tunica nera, ed egli le cercò nell'aria con le mani aperte
Senza voltarsi, parlò con voce stridula, sofferente:
— Dite quel che avete da dire, signor Ai.
— Posso farvi una domanda, mio signore?
— Sì. — Quasi si dondolava, appoggiandosi su un piede e sull'altro, mentre fissava il fuoco. Fui costretto a rivolgermi alla sua schiena.
— Voi credete che io sia quel che dichiaro di essere?
— Estraven ha costretto i medici a seppellirmi di nastri e nastri che vi riguardavano, e ha fatto lo stesso con gli ingegneri delle Officine, che hanno il vostro veicolo, e così via. Non possono essere tutti dei bugiardi, e tutti dicono che voi non siete umano. E allora?
— E allora, mio signore, ci sono altri come me. Cioè, io sono un rappresentante…
— Di questa unione, di questa Autorità, sì, molto bene. Perché vi hanno mandato qui… è questo che volete che io vi chieda?
Benché Argaven potesse non essere sano di mente o astuto, aveva avuto una lunga pratica nelle evasioni e nelle sfide e nelle sottigliezze rettoriche usate nella conversazione da coloro il cui massimo scopo nella vita era il raggiungimento e il mantenimento della relazione di shifgrethor ad alto livello. Intere regioni di quella relazione erano ancora per me regioni vuote e oscure, ma sapevo già qualcosa sull'aspetto competitivo, di prestigio, della cosa, e sul perpetuo duello dialettico che può risultarne. Che io non stessi duellando con Argaven, ma cercando di comunicare con lui, era esso stesso un fatto incomunicabile.
— Non ne ho fatto alcun segreto, mio signore. L'Ecumene desidera un'alleanza con le nazioni di Gethen.
— A quale scopo?
— Profitto materiale. Accrescimento della conoscenza. L'aumento della complessità e intensità del campo della vita intelligente. L'arricchimento dell'armonia, e per la maggior gloria di Dio. Curiosità. Avventura. Piacere.
Io non parlavo la lingua di coloro che governano gli uomini, i re e i monarchi, i conquistatori e i dittatori, i generali; in quella lingua non esisteva alcuna risposta alla sua domanda. Torvo e per nulla scosso, Argaven continuò a fissare il fuoco, dondolandosi lentamente, come una barca nella corrente.
— Quanto è grande questo regno là fuori, nel Nulla, questo Ecumene?
— Esistono ottantatré pianeti abitabili nello Spazio Ecumenico, e su di essi circa tremila nazioni, o gruppi antropici…
— Tremila? Vedo. E ora ditemi, di grazia, perché noi, uno contro tremila, dovremmo avere qualcosa a che fare, qualsiasi cosa, con tutte queste nazioni di mostri che vivono là fuori, nel Vuoto? — E in quel momento si voltò, finalmente, a guardarmi, perché egli stava ancora duellando, stava facendo una domanda rettorica, quasi uno scherzo. Ma lo scherzo non era profondo. Lui era… come mi aveva avvertito Estraven… a disagio, inquieto, allarmato.
— Tremila nazioni su ottantatré mondi, mio signore; ma il più vicino a Gethen dista diciassette anni di viaggio, a bordo di navi che vanno quasi alla velocità della luce. Se avete pensato che Gethen possa venire coinvolto in assalti e persecuzioni da tali vicini, considerate la distanza alla quale essi vivono. Degli assalti non valgono la pena di essere tentati da parte di nessuno, attraverso lo spazio. — Io non parlavo di guerra, per una buona ragione; non esiste un termine simile, in lingua karhidi. - Il commercio, però, ne vale la pena. Un commercio di merci e manufatti, inviati a bordo di astronavi con equipaggio umano, o automatiche. Ambasciatori, studiosi e mercanti, alcuni di essi potrebbero venire qui; alcuni dei vostri potrebbero andare su altri mondi. L'Ecumene non è un regno, ma un coordinatore, un libero foro per il commercio e la conoscenza; senza di esso, la comunicazione tra i mondi degli uomini sarebbe precaria e casuale, e il commercio assai rischioso, come voi potete comprendere. Le vite degli uomini sono troppo brevi per adattarsi ai balzi temporali tra i mondi, se non esiste una rete e un punto centrale, se non esiste controllo, se non esiste una continuità che possa costituire la base attraverso la quale proseguire il lavoro; perciò questi mondi e queste nazioni diventano membri dell'Ecumene… Siamo tutti uomini, sapete, mio signore. Tutti. Tutti i mondi degli uomini furono colonizzati e fondati, anni or sono, da un solo mondo, Hain. Possiamo variare, ma siamo tutti figli dello stesso Focolare…