Peccato che io tifassi per Deborah, che era stata appena messa a terra. La vidi aprire la bocca per un istante, poi richiuderla, le mascelle tese nello sforzo di assumere una neutrale espressione poliziottesca. Nel suo piccolo, se l’era cavata bene, ma mai quanto LaGuerta.
La riunione si concluse senza eventi di rilievo. Non c’era molto altro di cui parlare. Quindi, poco dopo il magistrale trionfo della detective, la seduta fu sciolta e ci ritrovammo tutti in corridoio.
«Quella maledetta», imprecò Deborah sottovoce. «Quella maledetta. Quella maledetta.»
«Assolutamente», concordai.
Lei mi fissò. «Grazie, fratello. Mi sei stato di grande aiuto.»
Sollevai un sopracciglio.
«Eravamo d’accordo che ne sarei rimasto fuori, in modo che tu potessi prenderti tutti i meriti.»
«Bei meriti», ringhiò. «Mi ha fatto fare la figura della cretina.»
«Con tutto il rispetto, mia cara sorella, vi siete incontrate a metà strada.»
Deborah mi guardò, poi si voltò, facendo un gesto di repulsione con le mani. «Che cosa dovevo dire? Non faccio nemmeno parte della squadra. Ero lì solo perché l’ha detto il capitano.»
«Che non ha detto che dovevano anche darti ascolto.»
«Infatti non lo fanno. Non mi ascolteranno mai», disse Deborah, amareggiata. «Invece di farmi entrare alla Omicidi, questa storia mi rovinerà la carriera. Finirò i miei giorni come ausiliaria della sosta, Dexter.»
«C’è una via d’uscita, Deb.»
Quando mi guardò, nei suoi occhi restava solo un barlume di speranza. «Quale?»
Le rivolsi il mio sorriso più confortante, rassicurante, incoraggiante. «Trova quel camion.»
Passarono tre giorni prima che avessi notizie dalla mia cara sorellastra, un periodo insolitamente lungo. Giovedì mi si presentò in ufficio poco dopo l’ora di pranzo, con un’espressione cupa. «L’ho trovato», annunciò.
Sulle prime non capii. «Trovato cosa, Deb?» le domandai. «La Fonte dell’Eterna Ruvidezza?»
«Il camion. Il camion frigorifero.»
«Questa è una grande notizia! Perché hai la faccia da incazzata?»
«Perché lo sono.» E mi mise sulla scrivania un tabulato di cinque pagine. «Guarda qui.»
Presi i fogli. «Oh. Quanti sono in totale?»
«Ventitré. Nell’ultimo mese risultano rubati ventitré camion frigoriferi. I ragazzi del Traffico dicono che di solito finiscono bruciati e gettati nei canali per incassare l’assicurazione. Nessuno si dà mai troppo da fare per ritrovarli. Vale anche per questi ventitré.»
«Benvenuta a Miami.»
Deborah sospirò e si riappropriò della lista, abbandonandosi sulla sedia come se le avessero sfilato le ossa. «Non c’è modo di controllarli tutti. Non da sola. Ci vorrebbero mesi. Accidenti, Dex, e adesso che cosa facciamo?»
Scossi la testa. «Mi dispiace, Deb. Ma non ci resta che aspettare.»
«Tutto qui? Solo aspettare?»
«Tutto qui.»
E così fu. Per due settimane. Aspettammo.
E poi…
9
Mi svegliai madido di sudore, senza sapere dove fossi, ma con l’assoluta certezza che un nuovo delitto fosse imminente. Da qualche parte, non lontano, Lui stava cercando la prossima vittima, vagando per la città come uno squalo che gira intorno alla barriera corallina. Ne ero così certo che potevo quasi sentire il nastro adesivo che si srotolava. Era là fuori, a cercare una preda per il suo Passeggero Oscuro. E il suo Passeggero parlava al mio. Nel mio sogno io vagavo con lui, un inquieto fantasma che lo seguiva nei suoi lenti cerchi.
Mi misi a sedere sul letto e mi liberai delle lenzuola spiegazzate. L’orologio sul comodino segnava le tre e quattordici. Ero andato a letto quattro ore prima e mi sentivo come se mi fossi fatto strada nella giungla con un pianoforte sulle spalle. Mi sentivo appiccicoso, rigido e stupido, incapace di formulare alcun pensiero.
Avevo solo una certezza: là fuori stava accadendo qualcosa e stava accadendo senza di me.
Non sarei più riuscito a dormire, di questo ero sicuro. Accesi la luce. Le mie mani erano umide e tremanti. Cercai di asciugarle sulle lenzuola, ma fu inutile: erano bagnate anche quelle. Mi trascinai al lavabo. Tenni le mani sotto l’acqua corrente, tiepida, a temperatura ambiente, e per un attimo le vidi tingersi di rosso. Per un istante, nella semioscurità del bagno, dal rubinetto scorse sangue.
Chiusi gli occhi.
Il mondo si alterò.
Speravo di liberarmi di quelle illusioni ottiche, di risvegliare il mio cervello semiaddormentato. Chiudere gli occhi, riaprirli e tornare alla realtà, con la normale acqua corrente che scorreva nel lavabo. Invece fu come aprire un altro paio di occhi su un mondo parallelo.
Ero di nuovo nei miei sogni, sospeso come la lama di un coltello sopra le luci di Biscayne Boulevard, freddo e tagliente, diretto sul mio bersaglio e…
Riaprii gli occhi. L’acqua era solo acqua.
Ma io cos’ero?
Scossi la testa con foga. Sta’ calmo, vecchio mio. Sta’ lontano dall’abisso. Tirai un respiro profondo e mi guardai allo specchio: ero come dovevo essere. Lineamenti regolari, occhi azzurri, calmi e ingannevoli, una perfetta imitazione della vita umana. Avevo solo i capelli incollati, come quelli di Stan Laurel. A parte questo, non c’era alcun segno di quanto mi era passato per la testa nel dormiveglia.
Richiusi gli occhi, esitante.
Buio, puro e semplice. Niente voli, niente sangue, niente luci della città. Solo il buon vecchio Dexter con gli occhi chiusi davanti allo specchio.
Li riaprii. Salve amico, è bello riaverti qui. Ma dove diavolo ti eri cacciato?
Questo, naturalmente, era il dilemma. Non avevo mai sofferto di incubi, né tantomeno di allucinazioni. Nessuna visione dell’Apocalisse, nessuna icona junghiana che emergesse dal subconscio, nessuna misteriosa immagine ricorrente nella storia del mio inconscio. Niente disturba le notti di Dexter. Quando vado a dormire, tutto dorme in me.
E allora che cos’era accaduto? Perché mi erano apparse quelle immagini? Mi spruzzai un po’ d’acqua sulla faccia e mi pettinai. Questo non risolveva la questione, ma mi faceva sentire meglio. Se avevo i capelli in ordine, tutto doveva essere a posto, no?
In verità, non lo sapevo. Poteva essere il contrario. Potevo essere sul punto di perdere qualche rotella, o tutte quante. E se anno dopo anno avessi perso un po’ per volta la ragione? Se questo nuovo serial killer non avesse fatto altro che spingermi definitivamente nel baratro della follia? Come potevo sperare di misurare la relativa sanità mentale di un individuo come me?
Le immagini mi erano sembrate così reali. Ma non potevano esserlo. Ero nel mio letto. Eppure avevo sentito distintamente l’aroma salmastro del mare, l’odore dei tubi di scappamento e il profumo da quattro soldi che aleggiavano sul Biscayne Boulevard. Assolutamente reali. E non era questo uno dei segnali della follia, quando la fantasia diventa indistinguibile dalla realtà? Non avevo risposte e non sapevo dove trovarne. Parlarne con uno strizzacervelli era fuori questione, ovviamente. Lo avrei spaventato a morte e lui si sarebbe sentito in dovere di farmi rinchiudere da qualche parte. E probabilmente avrebbe avuto ragione. Se stavo perdendo l’equilibrio mentale che mi ero costruito era solo un problema mio, e la prima parte del problema era che non avevo modo di saperlo con certezza.
O forse, a pensarci bene, un modo c’era.
Dieci minuti dopo passavo in macchina vicino a Dinner Key. Andavo piano, dato che non sapevo esattamente che cosa stessi cercando. Quella parte della città stava dormendo, come era normale. Poche persone vagavano nel panorama di Miami: turisti insonni dopo troppe tazze di caffè cubano, un’auto dell’Iowa a caccia di una pompa di benzina, forestieri in cerca di South Beach. E, naturalmente, i predatori: ladri, malviventi, tossici. Vampiri, zombie e mostri assortiti, come me. Ma in quest’area, a quest’ora, scarseggiavano anche loro. Era una Miami deserta, di più non si poteva. Un luogo reso solitario dal fantasma della folla diurna. Una città ridotta a mero territorio di caccia, privata del travestimento del sole e delle T-shirt colorate.