Lasciai la bambola dov’era e tornai alla mia poltrona, sprofondai nei cuscini e chiusi gli occhi. Sapevo che mi sarei dovuto sentire sconvolto, rabbioso, spaventato, violato, in preda a un’ostilità paranoica e alla furia vendicativa. Niente di tutto questo. Provavo invece… cosa? Un vago senso di vertigine. Ansia, forse. O era esaltazione?
Naturalmente non c’era possibilità di dubbio su chi fosse entrato in casa. Non mi pareva credibile l’idea che qualche sconosciuto, per ragioni imprecisate, avesse scelto a caso il mio appartamento come luogo ideale per mettere in mostra la sua Barbie decapitata. No. Era stato il mio artista preferito a farmi visita. Come avesse fatto a trovarmi non era importante. Non doveva essere stato impossibile rintracciarmi a partire dalla mia targa. Quella notte, sulla Causeway, l’assassino aveva avuto tutto il tempo che voleva per osservarmi dal suo nascondiglio dietro la stazione di servizio. Inoltre, chiunque sapesse maneggiare un computer avrebbe potuto scoprire il mio indirizzo. Dopo di che non era difficile entrare, guardarsi bene intorno e lasciare un messaggio.
Eccolo lì, il messaggio. La testa appesa separatamente, le partì del corpo depositate sul vassoio del ghiaccio e quel dannato specchietto. Combinato con la totale mancanza di interesse riguardo a qualsiasi altra cosa nell’appartamento, tutto questo portava a un’unica conclusione.
Ma quale?
Che cosa mi voleva dire?
Poteva lasciare qualsiasi cosa, oppure niente. Avrebbe potuto infilare un coltello da macellaio sanguinolento nel cuore di una mucca e lasciare tutto sul linoleum. Gli ero grato che non l’avesse fatto, avrebbe sporcato dappertutto. Ma perché la Barbie? A parte l’evidente somiglianza tra la bambola e la vittima del suo ultimo omicidio, perché venire da me? E questo messaggio intendeva essere più o meno sinistro di altri? Voleva dire: «Ti tengo d’occhio, ti prenderò»?
Oppure voleva dire: «Ehi, vuoi giocare con me?»
E io volevo. Certo che volevo.
Ma perché lo specchietto? La sua presenza andava oltre l’allusione al camion e all’inseguimento sulla Causeway. Doveva esserci qualcosa di più. E tutto quello che mi veniva in mente era: «Guarda te stesso». E che senso poteva avere? Perché avrei dovuto guardare me stesso? Non sono tanto vanitoso da trovarlo interessante. E perché guardare me stesso, se quello che volevo vedere era l’assassino? Dunque, nello specchio doveva esserci qualche altro significato che mi sfuggiva.
Ma anche di questo non potevo essere sicuro. Poteva anche non significare nulla. Non mi sembrava plausibile, trattandosi di un artista così elegante, però non potevo escluderlo. E il messaggio poteva essere qualcosa di molto personale, sinistro e deviante. Non c’era alcun modo di saperlo, né di sapere che cosa fare. Ammesso che io dovessi fare qualcosa.
Feci una scelta umana. Strano, se ci pensate: io che faccio una scelta umana. Harry ne sarebbe stato orgoglioso. Umanamente decisi di non fare niente. Aspettare e vedere. Non avrei denunciato l’effrazione. Che cosa c’era da denunciare, in fondo? Non era stato rubato niente. Non c’era niente da dichiarare ufficialmente, tranne: «Ah, capitano Matthews, credo che lei dovrebbe saperlo: qualcuno mi è entrato in casa e mi ha lasciato una Barbie in frigorifero».
Suonava bene. Ero sicuro che sarebbe piaciuto al Dipartimento. Forse il sergente Doakes avrebbe indagato di persona e avrebbe finalmente avuto la possibilità di rivelare un talento innato e una completa mancanza di inibizioni nelle tecniche di interrogatorio. E forse mi avrebbero inserito nella lista dei Mentalmente Inabili al Servizio, in compagnia della povera Deb, dal momento che il caso era chiuso e, anche quando era aperto, non aveva nulla a che fare con le Barbie.
No, non c’era niente da dire, e soprattutto niente che potessi spiegare. Quindi, a rischio di un’altra dose di spintoni selvaggi, non lo avrei detto nemmeno a Deborah. Per ragioni che non cercavo di chiarire neppure a me stesso, era una faccenda personale. E mantenerla tale aumentava le mie possibilità di avvicinarmi al mio visitatore. Per poterlo consegnare alla giustizia. Beninteso.
Presa quella decisione, mi sentii molto più tranquillo. Quasi esaltato, per essere sincero. Non avevo idea di cosa mi aspettasse, ma ero pronto ad affrontarlo.
Non mi liberai di quella sensazione per tutta la notte, né per tutto il giorno successivo, che trascorsi a compilare un rapporto, a consolare Deb e a rubare una ciambella a Vince Masuoka. Non mi liberai di quella sensazione neppure mentre guidavo verso casa, in mezzo all’allegro traffico omicida della sera. Ero in una condizione Zen, preparato a qualsiasi sorpresa.
O almeno così credevo.
Avevo appena fatto ritorno nel mio appartamento, mettendomi comodo sulla poltrona, che il telefono squillò. Lo lasciai suonare. Volevo riprendere fiato per qualche minuto e non mi aspettavo niente di urgente. Senza contare che la segreteria telefonica mi era costata quasi cinquanta dollari. Che facesse il suo dovere.
«Salve, non sono in casa al momento, ma vi richiamerò se vorrete lasciare un messaggio subito dopo il beep. Grazie.»
Che tono di voce favoloso! Che sagacia! Davvero un gran messaggio. Ne andavo molto orgoglioso. Respirai a fondo, ascoltando il melodico beeeep!
«Ciao, sono io.»
Una voce femminile. Non quella di Deborah. Sentii una palpebra vibrare di irritazione. Perché devono tutti cominciare i loro messaggi con «Sono io»? Certo che sei tu. Lo sappiamo tutti. Ma chi diavolo sei tu? Nel mio caso, la scelta era limitata. Sapevo che non era Deborah. Non sembrava nemmeno LaGuerta, anche se tutto era possibile. Dunque, restava solo…
Rita?
«Ehm, mi dispiace. Io…» Un lungo sospiro. «Senti, Dexter, mi spiace. Pensavo che mi avresti chiamata, ma non ti sei fatto vivo e allora…» Un altro sospiro. «Comunque, ho bisogno di parlarti. Perché ho capito… voglio dire… Oh, dannazione. Potresti, ehm, chiamarmi? Se… lo sai.»
Non lo sapevo. Per niente. Non ero nemmeno sicuro di chi fosse. Ma era davvero Rita?
Un altro sospiro. «Mi spiace che…» Una pausa lunghissima. Due respiri profondi. Inspira, espira, inspira, poi fuori tutto in una volta. «Ti prego, Dexter, chiamami. Solo…» Un’altra lunga pausa, un altro sospiro. Poi riagganciò.
Molte volte nella vita mi sono sentito come se mi mancasse qualcosa, un pezzo essenziale del puzzle che tutti gli altri si portano dietro senza nemmeno pensarci. Di solito non ci faccio attenzione, dal momento che nella maggior parte dei casi si tratta di qualche scempiaggine umana, come comprendere certe regole del baseball o non pretendere di andare a letto al primo appuntamento. Ma altre volte mi sento privo di un vasto bagaglio di saggezza, una riserva di significati che gli esseri umani conservano così in profondità da non avere nemmeno bisogno di parlarne. E forse non saprebbero neppure descriverli a parole.
Questa era una di quelle volte.
Mi rendevo conto che avrei dovuto capire ciò che Rita stava cercando di dirmi, qualcosa di specifico. Le sue pause ed esitazioni sottintendevano qualcosa di grande e meraviglioso che un maschio della specie umana avrebbe colto intuitivamente. Ma io non avevo la più pallida idea di cosa fosse, né di come decifrarlo. Dovevo contare i sospiri? Calcolare la lunghezza delle pause e convertire le cifre in versetti della Bibbia per arrivare a un codice segreto? Che cosa stava cercando di dirmi? E perché avrebbe dovuto cercare di dirmi qualcosa?
Per quello che mi era dato di capire, quando avevo baciato Rita, in preda a uno strano e stupido impulso, avevo oltrepassato un confine che tutti e due avevamo tracciato implicitamente. Dopo di che non c’era modo di tornare indietro. In un certo senso, quel bacio era stato una specie di delitto. Un pensiero quasi rassicurante: avevo assassinato la nostra relazione trapassandole il cuore con la lingua e spingendolo giù da un precipizio. Boom, ed era morto. Da allora non avevo nemmeno più pensato a Rita. Era svanita, sospinta fuori dalla mia vita da un capriccio incomprensibile. E adesso mi telefonava e registrava i suoi respiri per il mio diletto.