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Perché? Voleva forse castigarmi? Insultarmi, soffiarsi il naso nella mia follia, costringermi a comprendere l’immensità del mio oltraggio?

La cosa cominciava a irritarmi oltremisura. Passeggiai avanti e indietro. Perché avrei dovuto ripensare a Rita? Avevo preoccupazioni più importanti, al momento. Rita era la mia barba finta, uno stupido costume carnevalesco che indossavo nei weekend per nascondere la mia vera natura. In realtà ero uno che poteva fare ciò che faceva quell’altro. Solo che lui lo faceva e io no.

Era una forma di gelosia? Certo che io non le facevo quelle cose. Ero reduce da una recente dissezione e non mi ci sarei dedicato di nuovo per un po’. Troppo rischioso. Non avevo niente di pronto.

Eppure…

Tornai in cucina e giocherellai con la testina di Barbie. Tac tac tac. Mi sembrava di cogliere qualcosa. Voglia di giocare? Inquietudine profonda? Invidia professionale? Non lo capivo, e Barbie stava zitta.

Era troppo. Quella confessione clamorosamente falsa, la violazione del mio rifugio e adesso Rita? Ogni pazienza ha un limite, anche per un uomo finto come me. Cominciavo a sentirmi a disagio, confuso, incerto, iperattivo e letargico al tempo stesso. Andai alla finestra e guardai fuori. Era buio, adesso, e lontano, sull’acqua, una luce si innalzò nel cielo. Alla sua apparizione, una vocina malefica emerse dal profondo.

Luna.

Un sussurro all’orecchio. Non un vero suono, piuttosto la sensazione di qualcuno che mi chiamava da vicino. Molto vicino, sempre di più. Non erano parole, solo il secco fruscio di una non-voce, un tono muto, un pensiero a cavalcioni di un respiro. Mi sentii riscaldare il viso e percepii un suono appena udibile. Mi voltai, pur sapendo che non c’era nessuno, tranne il mio caro amico interiore, risvegliato da chissà cosa e dalla luna.

Un luna allegra, paffuta e chiacchierona. Oh, quante cose aveva da dire. E per quanto cercassi di spiegarle che non era il momento, che era troppo presto, che c’erano altre cose da fare, cose importanti, la luna sapeva come contraddirmi, punto per punto. Rimasi a discutere per un quarto d’ora, ma senza costrutto.

La disperazione cresceva. La combattei con ogni mezzo e quando tutto fallì, feci una cosa che mi scosse nel profondo. Chiamai Rita.

«Oh, Dexter», mi rispose. «Temevo che… Grazie della chiamata. È solo che…»

«Lo so», la interruppi, anche se non lo sapevo affatto.

«Non potremmo… Non so che cosa tu… Possiamo vederci e… Vorrei proprio parlarti.»

«Ma certo.»

Ci accordammo per vederci a casa sua. Mi chiedevo che cosa avesse in mente. Violenza? Lacrime di recriminazione? Insulti a squarciagola? Ero su un territorio sconosciuto, non sapevo cosa mi aspettasse.

Dopo che ebbi riagganciato il ricevitore, quei pensieri riuscirono a distrarmi per una mezz’ora buona, prima che la vocina interiore mi tornasse nel cervello con la sua quieta insistenza: stanotte doveva essere speciale.

Mi sentii trascinare alla finestra. Era ancora lì, la faccia allegra nel cielo, la luna che rideva. Tirai la tenda e feci il giro del mio appartamento, toccando gli oggetti, ripetendo a me stesso che stavo verificando che non mancasse nulla, anche se sapevo che c’era tutto e sapevo anche perché. A ogni giro mi avvicinavo sempre di più alla piccola scrivania in salotto, su cui tenevo il computer. Sapevo a cosa andavo incontro e non volevo farlo. Finché, dopo tre quarti d’ora, il Bisogno si fece insostenibile. La testa mi girava così tanto che non riuscivo a stare in piedi. Pensai di sedermi, e già che c’ero accesi il computer. E già che l’avevo acceso…

Ma non ci siamo, pensai. Non sono pronto.

E naturalmente non aveva importanza. Che io fossi pronto o no, non faceva differenza.

Lui lo era.

14

Ne ero quasi certo, ma solo quasi. E non ero mai stato quasi certo prima d’allora. Mi sentivo indebolito, intossicato, avvelenato da una combinazione di eccitazione, incertezza e avventatezza. Ma in quel momento era il Passeggero Oscuro a comandare, dal sedile posteriore. E come mi sentissi io non contava poi tanto, perché Lui si sentiva forte, sicuro, affamato e pronto. Lo sentivo mentre mi invadeva, sollevandosi dagli oscuri recessi del cervello da lucertola di Dexter. Un processo che poteva portare a un’unica conclusione. Dunque, date le circostanze, dovevo accontentarmi di ciò che avevo.

L’avevo scovato parecchi mesi prima, ma dopo averlo osservato per un po’ avevo deciso che con il prete andavo sul sicuro e che questo poteva aspettare fino a quando avessi raggiunto la certezza. Quanto mi sbagliavo. Ora scoprivo che non potevo aspettare un istante di più.

Viveva in una casetta modesta, in una stradina di Coconut Grove. Qualche isolato più in là c’era un quartiere popolato da neri a basso reddito, qualche ristorantino all’aperto e un paio di chiese fatiscenti. A meno di un chilometro, nella direzione opposta, i milionari erigevano barriere di corallo intorno alle loro grandi case moderne, per tenere lontana la gente come lui. Ma proprio nel mezzo Jamie Jaworski coabitava con mezzo milione di scarafaggi e con il cane più brutto che avessi mai visto.

Nonostante questo, era una casa che non si sarebbe potuto permettere. Jaworski faceva il bidello part-time alla Ponce de Leon Junior High School e, per quanto ne sapevo, quella era la sua sola entrata. Ci lavorava tre giorni alla settimana, il che poteva garantirgli quanto bastava appena per vivere. Naturalmente non era alle sue finanze che ero interessato, quanto piuttosto all’aumento significativo delle allieve della Ponce de Leon che risultavano scappate di casa, a partire dal momento in cui Jaworski aveva cominciato a prestarvi servizio. Tutte ragazzine bionde, tra i dodici e i tredici anni.

Bionde. Questo era importante. Per qualche ragione, era il tipo di dettaglio che alla polizia sembra sfuggire, ma che salta all’occhio a uno come me. Forse non sembrava politicamente corretto: anche le ragazze dai capelli neri e dalla pelle scura dovrebbero avere pari opportunità di essere rapite, violentate e fatte a pezzi davanti a una videocamera, non vi pare?

Troppo spesso risultava che Jaworski era stato l’ultimo a vedere le ragazze scomparse. La polizia gli aveva parlato, lo aveva trattenuto, lo aveva interrogato, ma non era riuscita ad attribuirgli nulla. Certo, avevano qualche lieve restrizione: ultimamente la tortura non era vista di buon occhio. E, senza un’efficace persuasione, Jamie Jaworski non avrebbe mai parlato del suo hobby. Sapevo che non lo avrebbe fatto.

Ma sapevo anche quale fosse il suo hobby. Aiutava quelle ragazze a scappare, offrendo loro una carriera rapida e definitiva nel mondo del cinema. Ne ero quasi sicuro. Non avevo trovato pezzi di cadavere, non lo avevo visto in azione, ma tutto corrispondeva. E su Internet ero riuscito a localizzare le foto di tre delle ragazze scomparse, in pose molto creative. Non sembravano molto felici, anche se alcune delle pratiche cui si dedicavano avrebbero dovuto procurare loro gioia, o almeno così mi si diceva.

Non potevo collegare con sicurezza Jaworski alle fotografie, ma l’indirizzo era a South Miami, a pochi minuti dalla scuola, e senza dubbio lui viveva al di sopra dei propri mezzi. Senza contare che il Passeggero Oscuro mi stava ripetendo che non avevo tempo, che questo era un caso in cui l’assoluta certezza non era importante.

Ma era quel brutto cane a preoccuparmi. I cani erano sempre un problema. Non mi hanno in simpatia e solitamente disapprovano quello che faccio ai loro padroni, anche perché non condivido con loro i pezzi migliori. Dovevo trovare il modo di aggirare il cane. Se Jaworski non usciva, dovevo essere io a entrare.