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«Non va bene», ci comunicò l’infermiera. «Stiamo cercando di farlo stare a suo agio.» E armeggiò con una grossa siringa, che riempì e sollevò in aria, spingendo lo stantuffo fino a farne uscire l’aria.

«… aspetti…» La voce era così flebile che per un attimo pensai venisse dal respiratore. Mi guardai intorno, finché vidi ciò che restava di Harry. Una debole scintilla animava il vuoto dei suoi occhi. «… aspetti…» ripeté, rivolto all’infermiera.

Lei non lo udì, o forse decise di ignorarlo. Gli si affiancò e gli sollevò delicatamente il braccio ossuto, passandogli sopra un batuffolo di cotone.

«… no…» sussurrò Harry, quasi impercettibilmente.

Guardai Deborah. Sembrava sull’attenti, in una perfetta posa di incertezza. Tornai a guardare Harry. I suoi occhi incrociarono i miei.

«… no…» ripeté. Ora nel suo sguardo c’era quasi una sfumatura di orrore. «… no… iniezione.»

Mi feci avanti e fermai l’infermiera con un gesto deciso, un attimo prima che conficcasse l’ago nella vena. «Aspetti», le dissi.

Lei mi guardò e, per un’infinitesima frazione di secondo, lessi nel suo volto qualcosa che mi lasciò di sasso. Era una rabbia gelida, una volontà disumana, come poteva concepirla il cervello di un rettile, la convinzione che il mondo fosse la sua riserva di caccia. Fu solo un lampo, ma ne ebbi la certezza: quella donna mi avrebbe volentieri cacciato l’ago in un occhio, solo per averla interrotta. Avrebbe voluto conficcarmelo nel petto e rigirarlo fino a farmi scoppiare le costole, fino a sentire il mio cuore che le esplodeva tra le mani, per potermi strizzare, spremere, strappare via la vita. Era un mostro, una cacciatrice, un’assassina. Una predatrice, un essere abietto e senz’anima.

Proprio come me.

Ma il suo sorriso smagliante tornò molto presto. «Che cosa c’è, tesoro?» disse con l’assoluta dolcezza della Perfetta Infermiera.

Mi sentivo la lingua troppo spessa per parlare e quando finalmente riuscii a farlo mi parve che fossero passati diversi minuti. «Non la vuole, l’iniezione.»

Lei sorrise di nuovo, un sorriso radioso dipinto sulla faccia, come la benedizione di un Dio onnisciente. «Il tuo papà è molto malato. Soffre molto.» Teneva la siringa sollevata e un raggio melodrammatico di sole fece brillare l’ago come se fosse il suo personale Santo Graal. «Ne ha bisogno.»

«Non la vuole», insistetti io.

«Sta soffrendo», ribadì lei.

Harry disse qualcosa che non riuscii a sentire. Fissavo l’infermiera, che a sua volta fissava me: due mostri che si contendevano lo stesso pezzo di carne. Senza distogliere lo sguardo da lei, mi chinai su Harry.

«… io… voglio… soffrire…» mormorò Harry, costringendomi a guardarlo. Dentro quel cranio, sotto una cresta di capelli rasati che d’improvviso sembravano troppo lunghi per la sua testa, Harry era tornato per aprirsi la strada con la forza tra la nebbia. Mi fece un cenno di assenso, tese la mano verso la mia e la strinse.

Tornai a fissare la Perfetta Infermiera. «Vuole soffrire», le comunicai.

Da qualche parte nella sua espressione accigliata, nel suo petulante cenno di disapprovazione, avvertii il ruggito di una belva che vede sfuggire la sua preda. «Dovrò dirlo al dottore.»

«Glielo dica», replicai. «Noi aspettiamo qui.»

La guardai veleggiare in corridoio, come un avvoltoio. Sentii una pressione sulla mano. Harry mi guardava guardare l’infermiera.

«Tu… lo sai…» disse Harry.

«Dell’infermiera?» gli chiesi.

Lui chiuse gli occhi e annuì debolmente, solo una volta.

«Sì», risposi. «Lo so.»

«Come… te…» sussurrò Harry.

«Cosa?» intervenne Deborah. «Di cosa state parlando? Papà, ti senti bene? Che cosa vuol dire ‘come te’?»

«Le piacciono quelli come me», spiegai. «Papà crede che l’infermiera si sia presa una cotta per me.»

«Oh, be’», fece Deborah, ma io mi stavo già concentrando su Harry.

«Che cos’ha fatto?» gli chiesi.

Harry accennò stentatamente a scuotere il capo. Fece una smorfia. Era evidente. Era chiaro che il dolore stava ritornando, come voleva lui. «Troppa…» disse. «Dà… troppa…»

Dovevo essere particolarmente stupido, quel giorno, perché tardavo a capire quello che cercava di dirmi. «Troppa cosa?»

Harry aprì un occhio appannato dal dolore. «Morfina», sussurrò.

Mi sentii trafitto da un raggio di luce. «Overdose», dissi. «Uccide mediante overdose. E visto che è praticamente il suo mestiere, nessuno ci fa caso. Ma allora…»

Harry mi strinse di nuovo la mano e io smisi di farneticare.

«Non lasciare…» disse con voce roca, ma con una forza stupefacente. «Non lasciare che… mi droghi ancora.»

«Per favore», intervenne Deborah, con evidente tensione nella voce, «di che cosa state parlando?»

Guardai Harry, che chiuse gli occhi, prostrato dal dolore.

«Pensa che… ehm», cominciai, esitante. Deborah non aveva idea di cosa fossi e, naturalmente, Harry mi aveva raccomandato di tenerla all’oscuro. E allora che cosa potevo dirle in merito, senza svelare troppo? «Crede che l’infermiera gli dia troppa morfina. Apposta.»

«È assurdo. È un’infermiera.»

Harry la guardò, ma non parlò. E, per essere sincero, nemmeno io avrei saputo cosa dire, di fronte all’incredibile ingenuità di mia sorella.

«Che cosa devo fare?» chiesi a Harry.

Lui mi fissò a lungo. Dapprima pensai che fosse annebbiato dal dolore, poi però mi accorsi che era perfettamente cosciente. La sua mascella era così tesa che le ossa sembravano voler schizzare fuori dal sottile strato di pelle evanescente. Gli occhi erano più penetranti che mai, come quella volta che mi aveva proposto la Soluzione Harry per la Quadratura delle Cose. «Fermala», disse, finalmente.

Un brivido mi attraversò. Fermarla? Era possibile? Cioè, fermarla una volta per tutte? Fino ad allora, Harry mi aveva aiutato a controllare il mio Passeggero Oscuro, dandogli in pasto animali randagi o portandolo a caccia di cervi. Una volta avevo persino braccato, insieme a Harry, una scimmia impazzita che terrorizzava il quartiere di South Miami. C’ero andato vicino, era quasi umana, ma, naturalmente, non del tutto. E avevamo preso in esame ogni singolo aspetto sul piano teorico, dai preliminari della caccia fino alla cancellazione degli indizi. Harry sapeva che un giorno o l’altro sarebbe cominciato e voleva che fossi pronto a fare tutto per bene. Ma mi aveva sempre trattenuto dal passare dalla teoria alla pratica. Eppure adesso… Fermarla? Voleva proprio dire quello?

«Vado a parlare col dottore», stabilì Deborah. «Ti farà cambiare le dosi.»

Aprii la bocca per parlare, ma Harry mi strinse la mano e annuì, una volta, a stento. «Vai», le disse.

Deborah lo guardò per un momento, prima di uscire dalla porta, in cerca del dottore. Quando se ne fu andata, un greve silenzio calò nella stanza. Non facevo altro che ripensare a ciò aveva detto Harry. Fermala. E non sapevo come interpretarlo altrimenti, se non come un segnale di partenza, il suo permesso di passare all’Azione, finalmente. Ma non osavo chiederglielo, nel timore che intendesse qualcos’altro. Così rimasi in piedi a lungo, gli occhi persi sul giardino fuori dalla finestra, sui fiori rossi intorno alla fontana. Il tempo passò. Mi sentii la bocca asciutta.

«Dexter», riprese lui, finalmente.

Non risposi. Non riuscivo a pensare a niente di adeguato.

«Le cose stanno così», continuò, con sofferta lentezza. Tornai a guardarlo. Quando vide che gli prestavo attenzione, mi rivolse uno stentato mezzo sorriso. «Presto me ne andrò. Non posso impedirti di… essere chi sei.»

«Di essere ciò che sono, papà», rettificai.