Lui fece un cenno noncurante con la mano incerta. «Presto o tardi… avrai… bisogno… di farlo a una persona.»
Mi sentii il sangue cantare al solo pensiero.
«Qualcuno che… lo merita…»
«Come l’infermiera», dissi, con la lingua spessa.
«Sì.» Chiuse gli occhi per un lungo istante. Quando riprese a parlare, il dolore gli pesava sulla voce. «Se lo merita, Dexter. Questa è…» Rantolò. Lo sentii schioccare la lingua, come se la bocca gli si fosse prosciugata. «Provoca deliberatamente… overdose ai pazienti… li uccide… li uccide… apposta. È un’assassina, Dexter. Un’assassina…»
Mi schiarii la gola. Mi sentivo impacciato, mi girava la testa. Ma, dopotutto, era un momento importante nella vita di un ragazzo. «Vuoi che…» dissi, e la voce mi venne meno. «Va bene se… la fermo, papà?»
«Sì», sussurrò Harry. «Fermala.»
Per qualche ragione, volevo essere assolutamente certo. «Vuoi dire… Come faccio io? Come con la scimmia?»
Harry aveva chiuso gli occhi. Il dolore lo trascinava via come un’ondata. Respirava a fatica. «Fermala… come… la scimmia.» Piegò la testa all’indietro e accelerò il respiro, ancora irregolare.
Bene.
Così stavano le cose.
Fermala come la scimmia. Sembrava un ritornello accattivante. Ma nella mia mente confusa tutto era musica. Harry mi stava scatenando. Avevo il suo permesso. Un giorno avevamo affrontato l’argomento, ma lui mi aveva trattenuto. Fino a quel momento.
Fino a ora.
«Ne abbiamo… discusso», disse, tenendo gli occhi chiusi. «Sai cosa fare…»
«Ho parlato al dottore», disse Deborah, rientrando di corsa nella stanza. «Segnerà le nuove dosi sulla cartella.»
«Bene», dissi, sentendo Qualcosa sorgere dentro di me, dalla base della spina dorsale fino alla punta dei capelli: una scarica elettrica che mi avviluppava. «Io parlerò con l’infermiera.»
Deborah mi guardò perplessa, forse sorpresa dal mio tono. «Dexter…» cominciò.
Esitai, cercando di contenere la gioia selvaggia che mi cresceva dentro. «Per evitare equivoci», spiegai. La mia voce suonava strana persino alle mie orecchie. Spinsi da parte Deborah prima che se ne accorgesse.
Mentre mi facevo largo nel corridoio, tra cumuli di lenzuola candide e stirate, sentii per la prima volta che il Passeggero Oscuro stava diventando il Nuovo Guidatore. Dexter passava in secondo piano, quasi invisibile, come strisce leggere sul manto di una tigre trasparente. Mi confusi con lui, quasi indistinguibile, eppure ero lì, a caccia della mia preda. In quel tremendo fulgore di libertà, mentre mi apprestavo a compiere l’Azione per la prima volta, scomparvi all’ombra del mio ego oscuro, mentre l’altro io ruggiva, pronto al balzo. L’avrei fatto, finalmente. Avrei fatto ciò per cui ero stato creato.
Lo feci.
17
L’avevo fatto. Era passato molto tempo, ma il ricordo mi pulsava ancora nelle vene. E poi avevo ancora quella goccia di sangue secco sul vetrino. Era stata la mia prima volta e mi bastava riguardare il vetrino per risvegliarne la memoria. Ogni tanto lo facevo. Era stato un giorno speciale per Dexter. La Perfetta Infermiera si era rivelata una Perfetta Compagna di Giochi e mi aveva aperto nuovi orizzonti meravigliosi. Avevo imparato molto, scoperto tante cose nuove.
Ma a che scopo ripensare alla Perfetta Infermiera proprio in quel momento? Perché questa serie di eventi mi riportava indietro nel tempo? Non potevo permettermi nostalgici ricordi del mio primo paio di pantaloni lunghi. Dovevo entrare in azione, prendere decisioni fondamentali, compiere grandi imprese, non certo passeggiare nei viali della memoria ripensando con affetto al mio primo vetrino con la goccia di sangue.
Goccia di sangue che, ora che mi veniva in mente, non avevo raccolto da Jaworski. Era proprio il tipo di dettaglio insignificante che può trasformare un dinamico uomo d’azione in un nevrotico capriccioso. Mi serviva quel vetrino. Senza di esso, la morte di Jaworski perdeva ogni significato. L’intero episodio non era ormai che un impulsivo slancio di idiozia. Era incompleto. Non avevo il vetrino.
Scossi il capo, cercando freneticamente di connettere almeno due cellule grigie alla stessa sinapsi. Avevo una mezza idea di prendere la barca per fare un giretto mattutino. Forse l’aria salmastra mi avrebbe ripulito il cervello dalla stupidità. Oppure fare una gita alla centrale nucleare Turkey Point, sperando che le radiazioni mi trasmutassero di nuovo in una creatura razionale. E invece mi preparai un caffè. Niente vetrino. Quel dettaglio deprezzava l’intera esperienza. Tanto valeva che me ne stessi a casa. O quasi. C’erano state altre ricompense. Ricordai con un sorriso la miscela di luce lunare e grida soffocate. Oh, che imprudente mostriciattolo ero stato. Un episodio completamente diverso dagli altri. Ogni tanto faceva bene spezzare la routine. E poi c’era stata Rita, naturalmente, ma di questo non sapevo cosa pensare, quindi mi astenni dal farlo. Ripensai invece alla fresca brezzolina che spirava sul volto contratto dell’uomo cui piaceva torturare ragazzine. In fondo era stata una serata quasi divertente. Certo che, di lì a una decina d’anni, i ricordi sarebbero svaniti e, senza vetrino, non avrei potuto ritrovarli. Sentivo la mancanza del mio souvenir. Be’, si vedrà.
Mentre il caffè bolliva, guardai se fosse arrivato il giornale, senza farmi troppe illusioni. Era insolito che lo portassero prima delle sei e trenta e, di domenica, spesso non lo si vedeva prima delle otto. Era un ulteriore esempio dello sfacelo della società che tanto preoccupava Harry. Sul serio: se non mi fate arrivare il giornale in orario, come potete pretendere che non vada in giro ad ammazzare la gente?
Niente giornale. Pazienza. I reportage delle mie avventure non mi avevano mai interessato granché. E Harry mi aveva messo sull’avviso su quanto potesse essere imprudente conservare un album di ritagli. Ma non c’era bisogno che mi mettesse in guardia. Di rado facevo caso agli articoli sulle mie performance. Stavolta invece era un po’ diverso, dato che ero stato precipitoso e non avevo la certezza di avere coperto opportunamente le mie tracce. Ero curioso di conoscere le reazioni alla mia festicciola improvvisata. Perciò rimasi seduto con il mio caffè per quarantacinque minuti, finché non sentii sbattere il giornale contro la mia porta. Andai a prenderlo e lo aprii.
Si possono dire molte cose sui giornalisti, quasi da farne un’enciclopedia, ma non che siano tormentati dai ricordi. Lo stesso giornale che recentemente aveva strombazzato
LA POLIZIA INTRAPPOLA IL PLURIOMICIDA
ora strillava
SI SQUAGLIA LA TESI «UOMO GHIACCIO»!
L’articolo era lungo e di piacevole lettura, con una scrittura drammatica che metteva in luce i dettagli del ritrovamento di un corpo brutalmente mutilato in un cantiere sulla Old Cutler Road:
Un portavoce del Dipartimento di Polizia di Metro-Miami
ovverosia la detective LaGuerta, ne ero certo,
ha dichiarato che è ancora presto per fare ipotesi attendibili, ma che probabilmente si tratta di un copycat killer.
Un assassino imitatore, sosteneva LaGuerta. Tuttavia il giornalista traeva le proprie conclusioni, un’altra cosa che i membri della categoria non esitano mai a fare. Si chiedeva infatti, senza peli sulla lingua, se il distinto gentiluomo attualmente in carcere, vale a dire il signor Daryll Earl McHale, fosse in effetti l’assassino. O se invece il vero serial killer non si trovasse ancora a piede libero, come quest’ultimo oltraggio alla pubblica morale lasciava intendere. Perché, come il giornalista si peritava di sottolineare, era difficile credere che due assassini del genere fossero all’opera contemporaneamente. Il ragionamento non faceva una grinza e mi veniva da pensare che, se i media avessero dedicato pari sforzo ed energie mentali alla soluzione del caso, la vicenda sarebbe stata chiusa, ormai.