Eravamo in un cantiere perché era necessario. L’assassino stava facendo la sua dichiarazione, come avevo preannunciato a Deborah. Stava dicendo: Avete preso l’uomo sbagliato. Avete messo in galera un cretino perché siete cretini anche voi. Siete troppo stupidi per capire, a meno che non vi ci faccia sbattere contro il naso. Ed ecco qua.
Ma più di ogni altra cosa, più che alla polizia e al pubblico, stava parlando con me, solleticandomi, provocandomi con una citazione dal mio ultimo, affrettato lavoro. Aveva portato i corpi in un cantiere perché io avevo portato Jaworski in un cantiere. Giocava a nascondino con me, mostrando a tutti quanto fosse bravo e avvisando uno di noi, cioè me, che mi stava tenendo d’occhio. So quello che fai e posso farlo meglio.
Suppongo che questo mi avrebbe dovuto preoccupare.
Invece no.
Mi faceva sentire quasi emozionato, come una liceale che vede il capitano della squadra di football farsi coraggio per chiederle di uscire. «Vuoi dire me? Proprio me? Cielo, dici sul serio? Scusa se batto le ciglia.»
Inspirai profondamente e cercai di ricordarmi che io ero una brava ragazza e non facevo certe cose. Ma sapevo che Lui le faceva. E volevo proprio uscirci insieme. Harry, ti prego…
Perché, a parte dedicarmi a nuovi e interessanti passatempi con un nuovo amico, avevo bisogno di trovare il serial killer. Dovevo vederlo, parlargli, dimostrare a me stesso che esisteva davvero e che…
Che cosa?
Che non ero io?
Che non ero io a fare quelle cose terribili e affascinanti?
Perché avrei dovuto pensarlo? Era assurdo. Era del tutto indegno delle attenzioni del mio cervello un tempo brillante. Solo che adesso quell’idea non se ne voleva andare. Non riuscivo a farla stare buona. E se fossi davvero stato io? E se avessi commesso io gli omicidi, senza saperlo? Impossibile, naturalmente, del tutto impossibile, tuttavia…
Mi sveglio al lavabo mentre lavo via il sangue dalle mani in un «sogno» in cui compio azioni che vanno al di là della mia immaginazione. In un modo o nell’altro, sono al corrente di dettagli che riguardano questa serie di omicidi. Cose che non potrei sapere, a meno che…
A meno che niente. Prenditi un tranquillante, Dexter. Riparti da zero. Respira, sciocco. Dentro l’aria buona, fuori l’aria cattiva. Non era che un ulteriore sintomo della mia recente fragilità mentale. A forza di condurre una vita ordinata, mi stavo avviando verso una senilità prematura. Non c’era dubbio che avevo avuto qualche momento di stupidità, nelle ultime settimane, e allora? Questo non bastava a dimostrare che fossi umano o che facessi sfoggio di creatività durante il sonno.
No, certo che no. Proprio così, non significava niente del genere. E quindi, eh, che cosa significava?
Avevo dato per scontato di essere sull’orlo della follia, di avere perso un congruo numero di rotelle per strada. Molto rassicurante. Ma se ero pronto ad ammettere questo, perché non ammettere la possibilità di essere responsabile di una deliziosa serie di scherzetti senza ricordarmene, se non sotto forma di sogni frammentari? La follia era forse più facile da accettare dell’incoscienza? Dopotutto, era solo una forma più evoluta di sonnambulismo. Sonnammazzismo. Probabilmente molto comune. Perché no? Per me era già normale cedere il posto di guida della mia coscienza al Passeggero Oscuro, quando gli veniva voglia di farsi un giro. Non sarebbe stato poi così stupefacente accettare che la stessa cosa si ripetesse con modalità leggermente diverse: il Passeggero prendeva la macchina quando io mi addormentavo.
Come spiegarlo altrimenti? Forse che nel sonno la mia proiezione astrale si sintonizzava sulle vibrazioni dell’aura del killer a causa di una connessione in una vita precedente? Certo, avrebbe avuto senso, se fossimo stati nel Sud della California. Ma qui a Miami sembrava un po’ meno plausibile. Sicché, se entrando in questo mezzo palazzo avessi visto tre corpi disposti in modo da comunicarmi qualcosa, avrei dovuto considerare la possibilità che il messaggio l’avessi scritto io. Non era più credibile dell’ipotesi di una party line del subconscio?
Ero arrivato alla scala esterna dell’edificio. Mi fermai per un istante e chiusi gli occhi, appoggiandomi alla nuda parete di cemento. Era appena più fresca dell’aria, e ruvida. Ci strofinai la guancia, provando una sensazione a metà tra il piacere e il dolore. Per quanto fossi curioso di salire a vedere quello che c’era da vedere, avrei voluto allo stesso modo non vederlo. Parlami, sussurrai al Passeggero Oscuro. Dimmi che cos’hai fatto.
Ma naturalmente non ci fu risposta, a parte la solita, gelida risata in lontananza, che non mi era di grande aiuto. Provavo una leggera nausea, un senso di vertigine e di insicurezza. E non mi piaceva la sensazione di provare sensazioni. Respirai a fondo tre volte, mi raddrizzai e riaprii gli occhi.
A un metro da me, con un piede sul primo gradino della scala, il sergente Doakes mi stava fissando. Il suo volto era una maschera nera scolpita di curiosa ostilità, come un Rottweiler che vorrebbe staccarti le braccia a morsi, ma prima vorrebbe scoprire che sapore hai. E nella sua espressione c’era qualcosa che non avevo mai visto in faccia a nessuno, se non allo specchio. Era la vacuità profonda e persistente di qualcuno che ha saltato l’intera storia a fumetti dell’esistenza umana ed è andato a leggere le vignette finali.
«A chi stai parlando», mi chiese, mostrando i suoi denti candidi. «C’è qualcun altro lì con te?»
Le sue parole e la sua aria di sapere tutto mi tagliarono in due come una lama e mi fecero sentire le viscere di gelatina. Perché aveva scelto proprio quelle parole? Che cosa intendeva dicendo lì con me? Poteva essere a conoscenza del Passeggero Oscuro? Impossibile. A meno che…
Doakes mi avesse riconosciuto per quello che ero.
Come io avevo riconosciuto la Perfetta Infermiera.
La Cosa Dentro lancia il suo richiamo nel vuoto, quando riconosce un esemplare della sua stessa specie. Che anche il sergente Doakes avesse il suo Passeggero? Com’era possibile? Poteva un sergente della Omicidi essere in realtà un oscuro predatore come il delittuoso Dexter? Impensabile. Ma come spiegarlo altrimenti? Non vedevo alternative. E continuammo a fissarci vicendevolmente, troppo a lungo.
Poi lui scosse il capo, continuando a controllarmi. «Uno di questi giorni», disse, «tu e io…»
«Ci penserò», risposi, con tutto il buon umore che riuscii a simulare. «Nel frattempo, se mi vuoi scusare…»
Lui rimase dov’era, occupando l’intera larghezza della scala. Poi si fece da parte, con un lieve cenno di assenso. «Uno di questi giorni», ripeté, mentre io gli passavo accanto per salire le scale.
Lo choc di quell’incontro mi aveva riportato bruscamente alla realtà. Ma certo che non stavo commettendo omicidi in stato di incoscienza. A parte l’evidente assurdità dell’idea, sarebbe stato impensabile compiere simili delitti senza ricordarsene. Doveva esserci qualche altra spiegazione, qualcosa di più semplice. Non ero certo l’unico a essere capace di una simile creatività. Dopotutto ero a Miami, circondato da creature pericolose come il sergente Doakes.
Mi affrettai sulle scale, sentendo una scarica di adrenalina nel sangue. Ero tornato a essere me stesso. Il fatto che salissi i gradini a due per volta non era dovuto soltanto al desiderio di allontanarmi quanto prima dal sergente. Ora ero risoluto a esaminare da vicino il più recente misfatto a danno del benessere comune. Curiosità naturale, niente di più. Di sicuro non avrei trovato le mie impronte digitali.
Al piano di sopra mancavano ancora quasi tutte le pareti. Appena misi piede su quello che sarebbe stato il pianerottolo, scorsi Angel Nessuna Parentela chino sul pavimento, immobile. Aveva i gomiti saldamente piantati sulle ginocchia, la faccia appoggiata sulle mani e lo sguardo vitreo. Era uno degli spettacoli più singolari e stupefacenti che avessi mai visto: un tecnico della Omicidi di Miami ridotto all’immobilità di fronte alla scena di un delitto.