Sicché il riassunto del caso secondo Dexter era: c’entro in qualche modo, ma non so che cosa voglia dire. Sentivo gli ingranaggi del mio cervello un tempo infallibile che uscivano dai perni e cadevano a terra. Clang clang. Ehi, Dexter deragliato.
A salvarmi dal crollo totale fu l’apparizione della cara Deborah. «Forza», mi disse bruscamente. «Andiamo di sopra.»
«Posso chiedere perché?»
«Andiamo a parlare col personale dell’ufficio. Vediamo se sanno qualcosa.»
«Se hanno un ufficio, qualcosa devono sapere.»
Lei mi guardò, solo per un istante. «Andiamo.»
Sarà stato per il tono della sua voce, fatto sta che le obbedii. Andammo dall’altra parte dell’Arena, nell’atrio, dove un poliziotto di Broward se ne stava sull’attenti davanti all’ascensore. Di là dalla parete di porte a vetri ce n’erano molti altri, in piedi accanto alle transenne. Deb marciò fino all’ascensore e disse al poliziotto: «Sono Morgan».
Lui annuì e premette il pulsante di chiamata. Mi rivolse un’occhiata inespressiva, carica di significato. «Anch’io sono Morgan», dissi.
Lui mi guardò ancora per un momento, poi si voltò verso le porte a vetri.
Un tintinnio sommesso annunciò l’arrivo dell’ascensore. Deborah entrò nella cabina e diede una manata sul pulsante, facendo voltare il poliziotto e chiudere le porte scorrevoli.
«Perché tanto malumore, sorellina? Non è questo che volevi fare?»
«È un lavoro di routine, lo sanno tutti», ringhiò lei.
«Ma è un lavoro di routine da detective», le feci notare.
«Quella troia di LaGuerta ci ha già messo il naso. Appena ho finito qui, devo tornare al servizio puttane.»
«Oh, cielo. Con il tuo costumino sexy?»
«Con il mio costumino sexy.»
Prima che potessi formulare qualche parola di consolazione arrivammo al piano degli uffici e le porte dell’ascensore si aprirono. Deb uscì per prima e io la seguii. Trovammo il personale riunito in una saletta, dove era stato raccolto in attesa che la Legge Sovrana avesse tempo di occuparsene. Un altro agente di Broward era di guardia alla porta, probabilmente per evitare che qualche membro del personale tentasse la fuga dal confine canadese.
Deborah fece un cenno all’agente ed entrò nella saletta. Le andai dietro senza particolare entusiasmo, lasciando che la mente tornasse al mio problema. Un attimo dopo fui strappato dalle mie riflessioni, quando Deborah mi fece cenno di seguirla. Aveva prelevato dalla saletta un giovanotto dai capelli lunghi e unticci, piuttosto riluttante. La seguii di nuovo.
Aveva separato il giovanotto dagli altri per interrogarlo, una buona procedura, ma per essere sincero non ero granché interessato. Sapevo, senza saperlo, che nessuno di costoro poteva dare alcun contributo utile. A giudicare dal primo esemplare selezionato, questo valeva non solo per l’indagine, ma per la sua esistenza in generale. Non era che un compito di routine, appioppato a Deb perché Matthews riteneva che avesse combinato qualcosa di buono, ma non la voleva tra i piedi. Per cui le aveva affidato un lavoretto da vera detective per tenerla occupata e levarsela di torno. E lei mi aveva portato con sé perché mi voleva al suo fianco. Forse sperava che i miei fantastici poteri ESP mi permettessero di determinare che cosa il personale avesse mangiato a colazione. Mi bastò un’occhiata al giovanotto per essere quasi certo che, nel suo caso, si fosse trattato di pizza fredda, patatine e un litro di Pepsi. Il tutto gli conferiva pelle grassa e un’aria di vuota ostilità.
Seguii Deborah e mister Riluttanza fino alla sala riunioni sul retro dell’edificio, dove si trovava un lungo tavolo di rovere con intorno una decina di sedie nere dallo schienale alto, uno scaffale sotto una finestra e una scrivania con un computer e apparecchiature audiovisive. Mentre Deb e il suo nuovo foruncoloso amico si fissavano in cagnesco, io andai alla finestra e guardai fuori. Vidi la folla crescente di giornalisti e le auto della polizia schierate di fronte al portone da cui Esteban ci aveva fatti entrare.
Abbassai gli occhi sullo scaffale, senza far caso alla conversazione che si svolgeva alle mie spalle. C’era una pila di cartellette sormontate da un piccolo arnese quadrato di plastica grigia. Un filo nero usciva dall’arnese e andava a infilarsi nel retro del computer. Lo presi in mano.
«Ehi», protestò il tipo riluttante. «Non tocchi la webcam.»
Guardai Deb, che ricambiò il mio sguardo. Potrei giurare che stesse dilatando le narici come un cavallo da corsa al cancello di partenza. «La cosa?» chiese.
«L’avevo messa a fuoco sull’entrata. Adesso mi toccherà regolarla di nuovo. Ma chi le dà il permesso di spostare la mia roba?»
Mi rivolsi a Deborah. «Ha detto webcam.»
«Una videocamera», disse lei.
«Sì.»
Deborah si voltò verso il principino. «È in funzione?»
Lui tardò a capire, era troppo impegnato a mantenere la sua espressione ostile. «Come?»
«La videocamera. Funziona?»
Lui sbuffò e si pulì il naso con un dito. «Che cosa crede, che l’avrei messa lì se non funzionava? Costa duecento dollari. Certo che funziona.»
Guardai dalla finestra, nella direzione verso cui era puntata la webcam, mentre lui continuava a borbottare: «Ho un sito internet, Kathouse.com. La gente può vedere la squadra che entra ed esce dal portone».
Deborah si alzò e mi venne accanto.
«Era puntata sul portone», le dissi.
«Duh», disse il simpaticone. «Sennò come fa la gente a vedere la squadra?»
Deborah si voltò verso di lui e lo squadrò.
Tempo cinque secondi e lui arrossì e abbassò lo sguardo sul tavolo.
«Era accesa, ieri sera?» chiese Deborah.
Lui tenne gli occhi bassi e mormorò: «Certo, cioè, credo di sì».
Deborah guardò me. Le sue nozioni di informatica si limitavano alla compilazione di rapporti standard sul traffico. Sapeva che io ci capivo qualcosina in più.
«Come l’ha regolata?» domandai alla testa china. «Le immagini sono archiviate automaticamente?»
Stavolta alzò lo sguardo. Avevo usato il verbo «archiviare», forse non ero poi così cattivo. «Già. Si aggiorna ogni quindici secondi e manda tutto al disco rigido. Di solito lo cancello alla mattina.»
Deborah mi strinse il braccio così forte da graffiarmi. «L’ha cancellato, stamattina?»
Lui distolse nuovamente lo sguardo. «No. Voialtri siete arrivati a fare casino. Non ho avuto neanche il tempo di controllare l’e-mail.»
Deborah si voltò verso di me.
«Bingo», sibilai io.
«Venga qui», disse lei al nostro ospite infelice.
«Huh?»
«Venga qui», ripeté Deborah.
Lui si alzò lentamente, con la mascella penzoloni, massaggiandosi le nocche. «Come?»
«Vuole venire qui, signore?» ordinò Deborah, con un’autentica tecnica da poliziotta veterana.
Lui barcollò fino alla finestra.
«Possiamo vedere le immagini di ieri notte, per favore?»
Lui guardò prima il computer, poi lei. «Perché?» Ah, i misteri della mente umana.
«Perché», spiegò Deborah, con studiata lentezza, «credo che potrebbe avere registrato l’immagine dell’assassino.»
Lui batté la palpebre e arrossì. «Ma no?»
«Ma sì», risposi io.
Lui guardava alternativamente me e Deborah, con la mascella pendula. «Incredibile», mormorò. «Niente cazzate? Cioè, davvero? Cioè…» Arrossì ancora di più.
«Possiamo vedere le immagini?» insistette Deborah.
Lui rimase immobile per un istante, poi si abbatté sulla sedia dietro la scrivania e toccò il mouse. Lo schermo prese immediatamente vita. Lui si mise a battere furiosamente i tasti e a cliccare sul mouse. «Da che ora devo cominciare?»