Lei si leccò le labbra. «Che cosa te lo fa pensare?»
Esitai, ma lei continuava a fissarmi come un rettile. Per quanto mi facesse sentire a disagio, dovevo darle un altro brandello di verità. Indicai il furgone degli Allonzo Brothers, parcheggiato accanto alla recinzione. «Quello è il suo furgone.»
«Ah», fece lei, battendo le palpebre. Per un attimo parve pensare ad altro. Ai capelli? Al trucco? Alla carriera? Chi lo sa. Ma in quel momento una brava detective avrebbe dovuto farmi un sacco di domande. Come facevo a sapere che quello era il suo furgone? Come avevo fatto a trovarlo? Perché ero sicuro che non l’avesse semplicemente lasciato lì, andandosene da qualche altra parte? Il giudizio finale era che LaGuerta non fosse una brava detective. Si limitò ad assentire, leccandosi di nuovo le labbra, e a dire: «Come lo troviamo, là in mezzo?»
Chiaramente, l’avevo sottovalutata. Era passata dal tu al noi senza una transizione visibile. «Non vuoi chiamare rinforzi?» le chiesi. «Quello è un individuo molto pericoloso.» Ammetto di averlo detto solo perché avevo bisogno di lei, ma LaGuerta mi prese sul serio.
«Se non lo prendo io, quel tipo, tra due settimane sarò a dirigere il traffico», rispose. «Ho la pistola. Nessuno me lo porterà via. Chiamerò i rinforzi quando l’avrò in pugno.» Mi guardò imperturbabile. «E se non lo troviamo, gli darò te.»
Preferii sorvolare. «Puoi farci entrare?»
Lei rise. «Ma certo. Ho il mio distintivo. Possiamo entrare dove vogliamo. E poi?»
Questa era la parte più delicata. Se ci cascava, potevo avere mano libera. «Ci dividiamo e gli diamo la caccia.»
Le rividi sulla faccia l’espressione di quando era scesa dall’auto: lo sguardo di un predatore che valuta la preda, per decidere quando e dove colpire e quanti artigli usare. Era orribile: cominciava a starmi simpatica. «Okay», stabilì. E indicò la sua auto. «Sali.»
Salii. Tornammo sulla strada. Persino a quell’ora c’era un po’ di traffico. Doveva trattarsi di gente dell’Ohio in cerca della nave da crociera. Qualcuno finiva per sbaglio al cancello e veniva rimandato indietro dalle guardie. La detective si fece largo tra le auto con la sua grossa Chevrolet: gli automobilisti del Midwest non avevano chance contro una cubana di Miami coperta da una buona mutua, a bordo di un’auto di cui non le fregava niente. Tra un coro di clacson e qualche protesta sommessa, raggiungemmo il cancello.
La guardia, un nero magro e muscoloso, spuntò dal gabbiotto. «Signora, non può…»
Lei esibì il distintivo. «Polizia. Apri il cancello.» Lo disse con tale autorità che fui sul punto di saltare giù e aprirglielo io.
La guardia si irrigidì, inspirò dalla bocca e guardò verso il gabbiotto. «Che cosa vuole…»
«Apri quel cazzo di cancello», insistette lei, sventolando il distintivo.
La guardia si sciolse. «Posso vedere il distintivo?»
Lei lo teneva svogliatamente in mano, costringendolo a fare un passo avanti per guardarlo da vicino.
«Ah», fece lui. «Può dirmi qual è il problema?»
«Posso dirti che se non apri il cancello tra due secondi, ti ficco nel bagagliaio e ti porto in una cella piena di motociclisti gay, dopo di che mi dimentico dove ti ho lasciato.»
La guardia si mise sull’attenti. «Volevo solo rendermi utile.» Si voltò. «Tavio, apri il cancello.»
Il collega obbedì e LaGuerta spinse l’acceleratore. «Quel figlio di puttana ha qualche giro di contrabbando che non vuole farmi scoprire», mormorò lei, divertita, con una punta di eccitazione. «Ma stanotte non me ne frega niente. Dove si va?»
«Non lo so. Suppongo che dovremmo partire da dove ha lasciato il furgone.»
Lei annuì, percorrendo a tutta birra la pista tra i container. «Se deve trasportare un corpo, non avrà parcheggiato lontano.» LaGuerta rallentò in prossimità della recinzione e si fermò con un sobbalzo a un metro e mezzo dal furgone. «Diamo un’occhiata alla rete», disse, saltando giù dalla Chevrolet.
La seguii.
LaGuerta calpestò qualcosa di sgradevole e si guardò sotto la scarpa. «Ma porca…»
La superai, col cuore che batteva all’impazzata. Raggiunsi il furgone, ci girai intorno, provai le portiere. C’erano due finestrini sul retro, verniciati dall’interno. Misi un piede sul paraurti e cercai di sbirciare lo stesso, ma lo strato di vernice era compatto. Avvertii la presenza di LaGuerta alle mie spalle.
«Trovato qualcosa?»
Rimisi piede a terra. «Niente. Ha verniciato i finestrini.»
«Guarda davanti.»
Neanche dal parabrezza si vedeva molto: era coperto all’interno da uno di quei parasole così popolari in Florida, disteso sopra il cruscotto. Mi arrampicai sul paraurti, ma non riuscii a scorgere nulla. «Nemmeno qui.»
«Okay.» LaGuerta strinse gli occhi. La punta della lingua le spuntò dalle labbra. «Da che parte vuoi andare?»
Di qua, mi disse una vocina nel cervello. Da questa parte. Guardai a destra, dove puntava il mio indice mentale, poi mi voltai verso LaGuerta, che mi fissava coi suoi occhi da tigre affamata. «Io vado a sinistra e faccio il giro. Ci incontriamo a metà strada.»
«Okay», rispose LaGuerta, col suo sorriso da fiera. «Ma a sinistra ci vado io.»
Cercai di mostrarmi sorpreso e deluso. Il mio facsimile dovette essere convincente, perché lei ripeté «Okay» e si incamminò lungo la fila di container.
Io mi ritrovai solo con il mio amico interiore. E adesso? Ora che avevo indotto LaGuerta a lasciarmi andare a destra, cosa pensavo di fare? Dopotutto, non avevo ragione di pensare che la destra fosse meglio della sinistra o, per quanto ne sapevo, meglio del restare a guardare dalla recinzione. Avevo solo la mia vocina a guidarmi, ma sarebbe bastata? Quando si vive in una torre glaciale fatta di logica si cerca sempre una base solida per le proprie azioni. Si tende a ignorare lo stridore irrazionale e irragionevole delle voci musicali che ti spronano dal fondo del cervello, per quanto si facciano insistenti sotto la luce della luna.
Guardai la lunga e irregolare fila di container. Dalla parte in cui si erano diretti i tacchi a spillo di LaGuerta c’era una mandria di autoarticolati dai colori brillanti. Dalla mia parte c’erano i container.
D’un tratto mi sentivo incerto, il che non mi piaceva affatto. Chiusi gli occhi. In quel momento il sussurro divenne una nube sonora. Senza sapere perché, mi trovai a camminare verso un cumulo di container che non sembravano diversi da tutti gli altri. I miei piedi si misero in moto, come se seguissero una pista che solo gli alluci potevano scorgere, come se solo loro sapessero tradurre il mormorio del mio coro interiore. Io non feci che assecondarli.
Il sussurro divenne un ruggito sommesso, che mi costrinse ad accelerare il passo. E al tempo stesso sentivo un’altra voce, più ragionevole, che cercava di trattenermi, consigliandomi di tornare indietro, di correre a casa, perché quello era l’ultimo luogo in cui volessi davvero andare. Ma non aveva più senso delle altre. Ero spinto in avanti e all’indietro con tale veemenza che persi l’equilibrio e mi trovai con la faccia sul terreno pietroso. Mi misi in ginocchio, privo di saliva e con il cuore che martellava nel petto. Notai che la mia bella camicia a mezze maniche di dacron si era strappata. Ficcai un dito nel buco e lo feci spuntare dall’altra parte.
Salve, Dexter, ma dove vai?
Salve, signor Dito. Non lo so, ma sono quasi arrivato. Sento gli amici che mi chiamano.
Mi rimisi in piedi, titubante, e ascoltai. Sentivo la voce chiaramente, adesso, anche a occhi aperti. Era così forte che non riuscivo nemmeno a camminare. Mi appoggiai a uno dei container. Era un pensiero rassicurante, se mai me ne serviva uno: una cosa senza nome era nata in quel luogo, una cosa che viveva nel più oscuro recesso di ciò che era Dexter. E per la prima volta, per quanto potessi ricordare, ebbi paura. Non mi piaceva trovarmi in quel luogo, dove si aggiravano entità spaventose. Eppure era lì che dovevo essere, per trovare Deborah. Ero lacerato da un invisibile tiro alla fune. Mi sentivo il testimonial di una raccolta di fondi pro Sigmund Freud. Volevo tornare a casa e andare a dormire.