Un altro che si fingeva un essere umano, esattamente come me.
«Be’, Dexter», fece Vince, senza alzare gli occhi, «qual buon vento?»
«Sono venuto a vedere come operano veri esperti in un’atmosfera assolutamente professionale. Ne hai visto qualcuno, qui intorno?»
«Ah-ah.» Quella doveva essere una risata, ma sembrava più artificiale del suo sorriso. «Dove credi di essere, a Boston?» Trovò qualcosa e lo tenne sotto la luce, stringendo gli occhi.
«Sul serio, che ci fai qui?»
«Cosa ci faccio, Vince?» dissi, fingendomi indignato. «Non è la scena di un crimine?»
«Tu ti occupi delle macchie di sangue», fece lui, gettando via ciò che aveva trovato e mettendosi a cercare qualcos’altro.
«Ne ero al corrente.»
Lui mi guardò con il più largo dei suoi sorrisi finti. «Non c’è sangue qui, Dexter.»
Mi sentii confuso. «Come sarebbe a dire?»
«Non c’è sangue né qui né tutt’intorno. Neppure una goccia. La cosa più strana che ti possa capitare di vedere.»
Neppure una goccia. Sentivo quella frase riecheggiarmi nella testa, ogni volta più sonora. Nessun orrido spargimento di sangue appiccicoso. Niente schizzi. Niente macchie.
NEPPURE UNA GOCCIA.
Com’è che non ci avevo pensato?
Sembrava il pezzo mancante di un puzzle che credevo completo.
Io non ho la presunzione di comprendere quale rapporto ci sia tra Dexter e il sangue. Solo a pensarci mi fa impressione. Eppure, dopotutto, ci ho costruito sopra una camera, i miei studi e parte del mio vero lavoro. È chiaro che c’è sotto qualcosa di profondo, ma a essere sinceri non mi interessa più di tanto. Sono quello che sono. E non è forse bello passare una serata a dissezionare un assassino di bambini?
Ma questo…
«Ti senti bene, Dexter?» domandò Vince.
«Splendidamente. Com’è che ha fatto?»
«Dipende.»
Lo guardai. Era concentrato su una manciata di fondi di caffè, che stava esplorando con un dito guantato.
«Dipende da cosa, Vince?»
«Dipende da chi è che ha fatto cosa», rispose. «Ah-ah.»
Scossi il capo. «A volte esageri con l’imperscrutabilità. Come ha fatto l’assassino a far sparire il sangue?»
«Difficile a dirsi, in questo momento. Non ci sono tracce. E il cadavere non è in ottima forma, quindi sarà difficile trovarne.»
Questo non era altrettanto stimolante. A me piace lasciare un cadavere pulito. Niente disordine, niente confusione, niente sangue che gocciola. Se questo assassino era uno come tanti altri, non mi interessava. Respirai con più calma.
«Dov’è il corpo?» chiesi a Vince.
Lui si voltò verso un punto a circa sei metri da lì. «Laggiù», rispose. «Con LaGuerta.»
«Mio Dio. È LaGuerta a occuparsene?»
Mi rivolse un altro dei suoi sorrisi simulati. «Un assassino fortunato.»
Guardai in quella direzione. C’era un gruppetto di persone intorno a un mucchio di sacchi della spazzatura. «Non vedo niente.»
«Proprio lì. I sacchi della spazzatura. Ognuno è un pezzo di cadavere. Ha tagliato la vittima a pezzi, avvolgendoli uno a uno come un regalo di Natale. Hai mai visto nessuno fare così?»
Certo che sì.
È precisamente la mia tecnica.
3
C’è qualcosa di strano e disarmante nel guardare la scena di un delitto alla luce del sole di Miami. Persino gli omicidi più grotteschi hanno qualcosa di asettico. Sembrano una messinscena, come se ci si trovasse in una nuova sezione trasgressiva di Disney World. Il meraviglioso mondo di Jeffery Dahmer. Venite a vedere il frigorifero degli orrori. Mettetevi ordinatamente in fila.
Non che la vista di un corpo mutilato mi avesse mai fatto impressione, oh, no, tutt’altro. Mi disturbano un pochino quelli un po’ disordinati in fatto di fluidi corporei. Poco belli a vedersi. Ma per il resto non mi sembra diverso dal guardare costolette dal macellaio. Tuttavia, reclute e visitatori hanno la tendenza a vomitare sulla scena del crimine, anche se, per qualche ragione, rimettono di meno qui che al nord. Sarà perché amano Miami. È una città così pulita.
E quella era una splendida, calda giornata di Miami. Chiunque indossasse un impermeabile stava già cercando dove appenderlo. Purtroppo era impossibile trovare un posto adatto in tutto il parcheggio: c’erano solo cinque o sei auto e il mucchio dei rifiuti, in un angolo vicino alla porta di servizio del Café, ai piedi di un muro dipinto di rosa sormontato da filo spinato. Una ragazza dall’espressione cupa continuava a entrare e uscire, servendo frettolosamente café cubano e pasticcini ad agenti e tecnici. I poliziotti in giacca e cravatta che affollavano la scena del crimine, chi per farsi notare, chi per dare ordini, chi per curiosare, ora avevano qualcos’altro di cui preoccuparsi: il caffè, i pasticcini e dove mettere gli impermeabili.
Quelli della Scientifica non erano in giacca e cravatta: preferivano camicie colorate di rayon con due taschini. Ne avevo indosso una pure io, con un disegno di suonatori di tamburo vudu e palme su uno sfondo verde acido. Vistosa, ma comoda.
Puntai verso la camicia di rayon più vicina, nel gruppo che si affaccendava intorno al cadavere: quella di Angel Batista Nessuna Parentela. Era così che si presentava di solito: «Salve, sono Angel Batista, Nessuna Parentela». Lavorava nell’ufficio del medico legale. In quel momento era chino su uno dei sacchi della spazzatura. Ci stava sbirciando dentro.
Mi misi dietro di lui. Anch’io morivo dalla curiosità di guardarci dentro. Qualsiasi cosa scatenasse una reazione emotiva in Deborah meritava un’occhiata. «Cos’abbiamo qui, Angel?»
«Come sarebbe a dire, abbiamo, uomo bianco? Non ci sono tracce di sangue. Non c’è lavoro per te.»
«Così mi dicono.» Mi accovacciai accanto a lui. «L’hanno ammazzata qui, o hanno solo lasciato il cadavere?»
Angel scosse la testa. «Non è chiaro. Portano via i rifiuti due volte a settimana. Questa dev’essere qui da un paio di giorni.»
Mi guardai intorno, poi lanciai uno sguardo alla facciata ammuffita dell’hotel El Cacique. «E l’albergo?»
«Stanno ancora controllando, ma ho idea che non troveranno niente. Anche le altre volte ha lasciato il corpo nel primo mucchio di rifiuti che ha trovato. Ah!» fece d’un tratto.
«Che c’è?»
Sollevò un lembo di plastica con una matita. «Guarda quel taglio.»
Una gamba amputata spuntò dal sacco, bianca ed eccezionalmente morta sotto i raggi del sole. La gamba si interrompeva alla caviglia. Il piede era stato asportato con precisione. Restava solo una piccola farfalla tatuata, cui mancava un’ala, sparita insieme al piede.
Mi sfuggì un fischio. L’assassino aveva fatto un bel lavoro, quasi chirurgico. Non avrei saputo fare di meglio. «Molto pulito», commentai. Ed era vero, non solo per quanto riguardava il taglio. Non avevo mai visto un pezzo di cadavere così pulito, perfetto, completamente dissanguato. Uno splendore.
«Me cago en diez della pulizia», imprecò Angel. «Non è finito.»
Guardai meglio dentro al sacco. Non si muoveva niente. «A me sembra proprio finito, Angel.»