Ma la luna ruggiva nel cielo oscuro sopra di me, l’acqua ululava lungo Government Cut e la lieve brezza strillava come un raduno di spettri, sospingendomi avanti. Le voci nella mia testa erano ormai un assordante coro meccanico che mi spingeva verso i container. Il mio cuore era in fermento, sussultorio e ondulatorio, il mio affanno era udibile, troppo. Per la prima volta nella mia vita mi sentivo debole, traballante e stupido, come un essere umano. Come un infimo, impotente essere umano.
Barcollavo lungo una pista stranamente familiare, camminando su piedi in prestito, e di nuovo mi appoggiai a un container. Un container con un compressore in funzione, il cui ronzio si confondeva con lo stridore della notte, così fragoroso da annebbiarmi la vista. E fu in quel momento che il portello si aprì.
L’interno del container era rinfrescato da un condizionatore e illuminato da un paio di fotoelettriche. Sulla parete di fondo c’era un tavolo operatorio improvvisato, fatto di scatoloni di cartone.
E sul tavolo, immobile, c’era la mia cara sorella Deborah.
26
Per qualche secondo respirare mi parve superfluo. Guardai e basta. Lunghe strisce di nastro adesivo giravano intorno alle braccia e alle gambe di Deborah, che indossava pantaloncini corti di lamé dorato e un’esigua camicetta di seta annodata sopra l’ombelico. I capelli erano tirati indietro e gli occhi innaturalmente sgranati. Respirava affannosamente dal naso, dato che la bocca era sigillata da un pezzo di nastro adesivo i cui lembi scendevano fino al tavolo, immobilizzandole la testa.
Cercai di dire qualcosa, ma sentivo le fauci troppo secche e rimasi zitto. Si vedevano molte cose nei suoi occhi, ma fra tutte prevaleva la paura, così intensa da bloccarmi sulla soglia. Non l’avevo mai vista così prima di allora e non sapevo che cosa pensare. Feci mezzo passo verso di lei e la vidi fare una smorfia dietro il nastro adesivo. Spaventata? Certo. Ma da me? Ero venuto a salvarla. Presumibilmente. Perché doveva avere paura di me? A meno che…
Che fossi stato io?
E se durante il mio «sonnellino» di qualche ora prima Deborah fosse arrivata da me come previsto, trovando invece il Passeggero Oscuro al volante della dextermobile? E se a mia insaputa fossi stato io a portarla qui, a legarla al tavolo in modo così provocante, senza nemmeno rendermene conto? Non aveva senso: come potevo essere tornato di corsa a casa, avere lasciato in macchina la Barbie, per poi salire di corsa le scale, ficcarmi nel letto e infine risvegliarmi di nuovo «me stesso», come se stessi correndo una staffetta omicida? Impossibile. D’altra parte…
Come avrei potuto sapere altrimenti dove cercarla?
Scossi la testa: era impossibile che avessi trovato proprio questo tra tutti i luoghi di Miami, senza sapere prima dove fosse. Lo sapevo già. E l’unica possibilità era che ci fossi già stato. E se non questa sera, con Deborah, quando e con chi?
«Ero quasi certo che fosse questo il posto», disse una voce, così simile alla mia che per un attimo pensai di essere stato io a parlare e mi domandai che cosa stessi farneticando.
Sentii i peli rizzarmisi sulla nuca e feci un altro mezzo passo verso Deborah. Fu allora che lui emerse dall’ombra. Lo vidi alla luce delle fotoelettriche. I nostri sguardi si incrociarono e per un istante il container sembrò girare su se stesso e non capii dove mi trovassi. I miei occhi saettavano da lui alla porta e al tavolo operatorio di fortuna. Vidi me che guardavo lui e lui che guardava me. E poi, in un lampo abbagliante, mi vidi seduto sul pavimento, immobile, senza capire che cosa significasse quella visione, per quanto spaventosa. E poi fui di nuovo me stesso, anche se non ci capivo nulla.
«Quasi certo», ripeté lui, una voce allegra e tranquilla, come quella di un bambino leggermente disturbato. «Ma ora eccoti qui. Quindi dev’essere proprio questo il posto giusto, non credi?»
Non c’è modo più elegante per dirlo: ero lì immobile a fissarlo con la bocca spalancata da cui colava, credo, un filo di saliva. Non c’era dubbio, era quello l’uomo che avevo visto nelle immagini riprese dalla webcam, l’uomo che sia Deb sia io avevamo pensato che potesse essere Dexter.
Da vicino potevo dire che, in effetti, non ero io. Non proprio. Gli fui grato di questa rivelazione. Urrà, è qualcun altro. Non sono ancora completamente pazzo. Seriamente antisociale, certo, e sporadicamente un po’ omicida. Ma non pazzo. C’era un altro e non ero io. Lunga vita al mio cervello.
Ma mi assomigliava parecchio. Forse era più alto di qualche centimetro e più robusto di spalle e pettorali, come se avesse fatto sollevamento pesi. Il che, combinato al pallore del suo volto, mi induceva a pensare che fosse stato in prigione di recente. A parte questo, era quasi identico: stesso naso, stessi zigomi, stesso sguardo tipo «le luci sono accese ma non c’è nessuno in casa.» Persino i capelli erano mezzi ondulati come i miei. Non era uguale a me, ma molto simile.
«Sì, è quasi uno choc, la prima volta, vero?»
«Solo un po’», risposi. «Tu chi sei? E perché tutto questo…» lasciai la frase incompleta, perché non sapevo «tutto questo» cosa fosse.
Lui fece una tipica espressione delusa alla Dexter. «Oh, santo cielo. E io che pensavo avessi capito tutto.»
Scossi il capo. «Non so nemmeno come sono arrivato qui.»
Lui abbozzò un sorriso. «C’è qualcun altro al volante, stasera?» Mentre la pelle mi si accapponava, lui ridacchiò, un suono meccanico quasi impercettibile, identico nota per nota alla voce di lucertola che mi risuonava nel retrobottega del cervello. «E non c’è neanche la luna piena, vero?»
«Ma nemmeno la luna nuova.» Non era una battuta molto spiritosa, ma almeno ci avevo provato e, date le circostanze, mi sembrava incoraggiante. Mi accorsi che la scoperta che ci fosse qualcuno che sapeva era quasi inebriante. Non erano osservazioni casuali che per pura coincidenza facevano centro. La regola valeva anche per lui. Lui sapeva. Per la prima volta potevo guardare al di là del golfo sconfinato tra i miei occhi e quelli di un altro e dire senza esitazioni: lui è come me.
Qualunque cosa io fossi, lui era lo stesso.
«Sul serio», dissi. «Chi sei?»
Lui fece un sorriso da Stregatto-Dexter, ma poiché era identico a me sapevo che non rideva di felicità. «Che cosa ricordi di prima?»
L’eco di quella domanda rimbalzò tra le pareti del container fino quasi a disintegrarmi il cervello.
27
Che cosa ricordi di prima? aveva chiesto Harry.
Niente, papà.
Tranne…
C’erano immagini in fondo al mio cervello. Fantasie? Sogni? Ricordi? Visioni chiarissime, qualunque cosa fossero. Ed erano… di questo luogo? No, impossibile. Il container non poteva trovarsi lì da molto ed ero certo di non esserci mai stato prima. Ma lo spazio angusto, l’aria fresca che fluiva dal compressore, la luce tenue… tutto concorreva all’impressione di essere tornato a casa. Non poteva trattarsi dello stesso container, ma le immagini erano così vivide, così simili, così perfette, a parte…
Battei le palpebre. Un fotogramma mi aleggiava davanti agli occhi. Li chiusi.
E l’interno di un altro container mi apparve con estrema chiarezza. Non c’erano scatoloni, ma c’era… qualcosa. Vicino alla… mamma? Distinguevo il suo volto: si stava nascondendo dietro alle… cose, se ne vedeva lo sguardo immobile, vitreo, inerte. Dapprima mi venne da ridere: la mamma si era nascosta così bene. Non vedevo il resto, solo la faccia. Doveva avere scavato un buco nel pavimento. Si era nascosta in un buco e ora stava sbirciando fuori, ma perché non mi diceva niente, ora che l’avevo trovata? Perché non batteva ciglio? Nemmeno quando la chiamai ad alta voce rispose, o si mosse. Mi guardava e basta. E senza la mamma, io ero da solo.