C’era solo un punto debole nella sua teoria dell’interruzione. Un dettaglio insignificante, un pelo nell’uovo, ma… l’intero cadavere era stato meticolosamente ripulito e impacchettato, presumibilmente dopo essere stato smembrato. Infine era stato abbandonato pezzo per pezzo tra i rifiuti, apparentemente senza fretta e con molta circospezione, quanto occorreva all’assassino per non commettere errori e non lasciare tracce. Forse nessuno lo aveva fatto presente a LaGuerta. Oppure, meraviglia delle meraviglie, era possibile che nessuno ci avesse pensato? Certamente: buona parte del lavoro di indagine è routine e consiste nell’inserire i dettagli in schemi consolidati. Ma quando gli schemi sono del tutto nuovi, sembra di vedere tre ciechi che esaminano un elefante al microscopio.
Tuttavia, dal momento che io non ero né cieco né anestetizzato dalla routine, sospettavo che semplicemente, l’assassino non fosse soddisfatto. Di tempo ne aveva avuto a sufficienza, ma dopotutto questo era il quinto delitto con le stesse modalità. Che cominciasse ad annoiarsi a fare a pezzi i cadaveri? Che il Nostro Ragazzo fosse alla ricerca di qualcos’altro, qualcosa di diverso? Una nuova direzione, un’emozione nuova?
Potevo quasi avvertire la sua frustrazione. Arrivare fino a quel punto, darsi tanto da fare per sezionare i resti e farne pacchi dono, per arrivare all’improvvisa conclusione. Non è questo che cerco. Qualcosa non va.
Coitus interruptus.
L’esperienza non lo soddisfaceva più. Aveva bisogno di altro. Cercava di esprimere qualcosa, ma non aveva ancora trovato il suo vocabolario. E secondo la mia opinione personale, voglio dire, se fossi stato io, tutto ciò sarebbe risultato molto frustrante. E uno sprone a cercare altrove la risposta.
Presto.
Ma la detective LaGuerta cercava un testimone. Non ne avrebbe scovato nessuno. Questo era un mostro gelido e circospetto, una figura che trovavo molto affascinante. E come dovevo reagire io al suo fascino? Non lo sapevo. Per questo mi ero ritirato a pensare sulla mia barca.
Un Donzi mi tagliò la strada a settanta miglia all’ora, passandomi solo a pochi centimetri dalla prua. Gli rivolsi un allegro cenno di saluto e tornai al presente. Mi stavo avvicinando a Stiltsville, una collezione di case su palafitte quasi completamente abbandonate nei pressi di Cape Florida. Girai in cerchio, senza una meta precisa, e lasciai che i miei pensieri seguissero lo stesso lento arco.
Che cosa dovevo fare? Dovevo deciderlo subito, prima di cominciare a dare sul serio una mano a Deborah. Potevo aiutarla a risolvere il caso, questo era chiaro. Nessuno poteva farlo meglio di me. Non c’era nessun altro che si muovesse nella direzione giusta. Ma volevo proprio che il caso fosse risolto? Volevo proprio che questo serial killer fosse arrestato? Inoltre, pensiero quanto mai fastidioso, volevo davvero che fosse fermato?
Cosa avrei fatto?
Alla mia destra vedevo Elliott Key alla luce del tramonto. E, come sempre, ricordai quando ci ero andato in gita con Harry Morgan. Il mio padre adottivo. Il Buon Piedipiatti.
Sei diverso dagli altri, Dexter.
Sì, Harry, hai proprio ragione.
Ma puoi imparare a controllare la tua diversità e usarla in modo costruttivo.
Va bene, Harry. Se lo dici tu.
Come?
E lui me lo disse.
Da nessuna parte il cielo stellato è come quello della Florida meridionale quando hai quattordici anni e sei in gita con papà. Anche se si tratta solo di un papà adottivo. E anche se la vista delle stelle ti dà solo un remoto senso di soddisfazione, perché di emozioni non se ne parla. Non ne provi. Questa è una delle ragioni per cui sei qui.
Il fuoco si è spento, le stelle sono eccezionalmente brillanti e il tuo caro vecchio papà adottivo è zitto da un po’. Beve qualche sorso dalla fiaschetta che ha tirato fuori dalla tasca esterna dello zaino. A differenza di molti altri piedipiatti, non è un grande bevitore, ma ora la fiaschetta è vuota ed è il momento che lui dica quello che deve dire, se proprio intende farlo.
«Sei diverso dagli altri, Dexter.»
Smetto di fissare le stelle. L’ultimo bagliore del fuoco crea piccole ombre nella piccola radura sabbiosa. Qualcuna di esse si disegna sul volto di Harry, che mi appare strano, diverso dal solito. Determinato, infelice, titubante.
«Che cosa intendi dire, papà?»
Lui non mi guarda. «I Billup dicono che Buddy è sparito.»
«Quella piccola bestiaccia rumorosa. Abbaiava tutta la notte, la mamma non riusciva a dormire.»
La mamma aveva bisogno di dormire, naturalmente. Morire di cancro richiede parecchio riposo, ma era difficile con quel piccolo cagnaccio dall’altra parte della strada, pronto ad abbaiare a ogni foglia che cadeva sul marciapiede.
«Ho trovato la fossa», dice Harry. «C’erano tante ossa, Dexter. Non solo quelle di Buddy.»
Non ho molto da aggiungere. Raccolgo una manciata di aghi di pino e aspetto che prosegua.
«Da quanto tempo va avanti?» mi chiede Harry.
Cerco la sua faccia, poi guardo verso la spiaggia, in fondo alla radura, dove si trova la nostra barca, che ondeggia lieve con la marea. Le luci di Miami sono sulla destra, un debole chiarore. Non so dove Harry voglia andare a parare, o cosa voglia sentirsi dire. Ma lui è il mio papà adottivo, sempre schietto e diretto. Con Harry è sempre meglio dire la verità. Lui sa sempre tutto e, se non lo sa, lo scopre.
«Un anno e mezzo», rispondo.
Harry annuisce. «Perché hai cominciato?»
Bella domanda. La risposta sfugge alla mia mente di quattordicenne. «È solo che… Diciamo che… dovevo farlo.» Così giovane e già così calmo.
«Senti una voce?» vuole sapere. «Qualcosa o qualcuno ti dice cosa fare e tu devi farlo?»
«Uh», dico io, con la mia eloquenza di quattordicenne. «Non proprio.»
«Raccontami», dice Harry.
Oh, ci fosse stata la luna, una bella luna paffuta, qualcosa di grande da guardare. Raccolgo un’altra manciata di aghi di pino. Mi sento rosso in viso, come se papà mi avesse chiesto dei miei sogni erotici. Il che, in un certo senso…
«È come… una specie di… Sai, come se sentissi qualcosa…», dico io. «Dentro. Che mi guarda. Forse… che ride? Ma non è proprio una voce, solo…» Una significativa alzata di spalle da teenager.
Ma Harry sembra capire. «E questo qualcosa… ti spinge a uccidere.»
Sopra le nostre teste, in alto, passa lentamente un jet.
«No, ehm. Non è che mi spinge. Solo che… lo fa sembrare una buona idea.»
«Hai mai voluto uccidere qualcos’altro? Qualcosa di più grosso di un cane?»
Cerco di rispondere, ma sento qualcosa in gola. Mi schiarisco la voce. «Sì.»
«Una persona?»
«Nessuno in particolare, papà. Solo che…» Alzo di nuovo le spalle.
«Perché non l’hai fatto?
«È che… ho pensato che non vi sarebbe piaciuto. A te e alla mamma.»
«Solo per questo?»
«Io, ehm… Non volevo farvi… arrabbiare. Sai. Non volevo deludervi.»
Sbircio Harry di soppiatto. Mi sta guardando, senza battere ciglio. «È per questo che siamo venuti in gita, papà? Volevi parlarmi di questo?»
«Sì», dice Harry. «Bisogna far quadrare le cose.»
Far quadrare le cose, oh, sì, è così che Harry vede la vita: letti rifatti bene, scarpe lucide. Me lo aspettavo. Il bisogno di uccidere prima o poi si sarebbe confrontato con la necessità di far quadrare le cose.