«Come?» domando.
Lui mi guarda a lungo, serio, poi annuisce quando vede che lo seguo passo a passo.
«Bravo ragazzo», comincia. «Ora…» Ma ci vuole un bel po’ prima che si rimetta a parlare. Guardo le luci di una barca che passa a circa duecento metri dalla nostra spiaggetta. Da una radio a tutto volume la musica cubana sovrasta il rumore del motore. «Ora», ripete Harry, e io mi volto verso di lui. Sta guardando le braci morenti, come se ci leggesse il futuro. «Le cose stanno così.»
Lo ascolto attentamente. Queste sono le parole con cui Harry prelude a una somma verità. Come quando mi ha insegnato a lanciare una palla curva a baseball o a tirare un gancio sinistro. Le cose stanno così e le cose stavano sempre così.
«Divento vecchio, Dexter.» Aspetta che faccia un’obiezione, ma non la faccio e lui annuisce. «Credo che la gente veda le cose da un’altra prospettiva, quando invecchia. Non è questione di essere più molli, o di vedere il grigio invece del bianco e nero. Credo proprio di prendere le cose diversamente. Meglio.» Mi guarda. Lo sguardo di Harry: c’è l’affetto di un uomo duro in quegli occhi azzurri.
«Okay», dico io.
«Dieci anni fa ti avrei mandato in un istituto, da qualche parte», riprende, e io batto le palpebre. Mi ferisce, anche se l’ho pensato io stesso. «Adesso credo di vedere tutto più chiaramente. So che cosa sei e so che sei un bravo ragazzo.»
«No», lo contraddico. La voce mi esce flebile, ma Harry mi sente.
«Sì», ribatte lui, deciso. «Sei un bravo ragazzo, Dex. Lo so. Io lo so.» Parla quasi tra sé, forse in cerca di un effetto. Poi i suoi occhi agganciano i miei. «Altrimenti non ti importerebbe di quello che penso io o che pensa la mamma. Lo faresti e basta. Non puoi farci niente, lo so. Perché…» Si interrompe e mi fissa per un istante. Mi sento molto a disagio. «Che cosa ricordi di prima?» mi domanda. «Sai, prima che ti prendessimo con noi.»
Fa ancora male ma, sul serio, non so perché. Avevo solo tre o quattro anni. «Niente.»
«Bene», approva lui. «Nessuno dovrebbe ricordarlo.» E per tutto il tempo che gli resterà da vivere non dirà altro in proposito. «Ma anche se non te lo ricordi, Dexter, ha avuto un influsso su di te. È questo che fa di te ciò che sei. Ne ho parlato con qualcuno.» E, cosa più strana di tutte, mi rivolge un lieve, quasi timido sorriso. «Me lo aspettavo. Quello che ti è successo da piccolo ti ha influenzato. Ho cercato di mettere le cose a posto, ma…» Si stringe nelle spalle. «Era troppo forte. Troppo. Ti è entrato dentro presto e ci rimarrà. Non ci puoi fare niente. Non lo puoi cambiare. Tuttavia…» Distoglie nuovamente lo sguardo, non so per vedere cosa. «Tuttavia puoi incanalarlo. Controllarlo. Scegliere…» Le parole sono ponderate attentamente, non l’ho mai sentito parlare così. «Scegliere cosa… o chi… uccidi.» E mi rivolge un sorriso che non gli ho mai visto, secco e desolato come la cenere delle nostre braci morenti. «C’è un sacco di gente che se lo merita, Dex…»
E con quelle poche parole dà una forma alla mia vita intera, a tutto me stesso, a chi sono e cosa sono. Quell’uomo meraviglioso che vede tutto e sa tutto. Harry. Il mio papà.
Se solo fossi stato capace di amare, avrei amato Harry.
Tanto tempo fa. Harry è morto da molto. Ma le sue lezioni sono sopravvissute. Non perché provassi sentimenti caldi e appiccicosi, ma perché Harry aveva ragione. Lo avevo constatato più e più volte. Harry sapeva. Harry mi faceva da maestro.
Stai attento, diceva Harry. E mi insegnava a stare attento come solo un poliziotto poteva insegnarlo a un assassino. A scegliere con cura tra coloro che se lo meritavano. A esserne sicuro al cento per cento. E poi a essere preciso, a non lasciare tracce, a evitare sempre qualsiasi coinvolgimento emotivo, perché è così che si commettono gli errori.
E naturalmente l’attenzione andava oltre il semplice omicidio. Lo stesso rigore si applicava a tutto il resto. Dividere la mia esistenza in compartimenti. Socializzare. Imitare la vita.
Avevo seguito i suoi dettami diligentemente. Ero un ologramma pressoché perfetto. Al di sopra di ogni sospetto, del biasimo e del disprezzo. Un mostro pulito e ordinato, il ragazzo della porta accanto. Persino Deborah non sospettava quasi niente. Certo, anche lei credeva quello che voleva credere.
E in quel preciso momento credeva che io potessi aiutarla a risolvere quegli omicidi, a dare una spinta alla sua carriera, a catapultarla fuori dai vestiti da sesso hollywoodiano, direttamente in un tailleur di marca. E aveva ragione, ovviamente. Io potevo esserle d’aiuto. Ma non ero sicuro di volerlo fare, perché mi piaceva vedere quest’altro assassino all’opera. Provavo una sorta di connessione estetica, o di…
Coinvolgimento emotivo.
Bene, questo era il punto. Questa era una chiara violazione del Codice di Harry.
Diressi nuovamente la prua verso il canale. Era buio pesto, ormai, ma presi come riferimento un ripetitore sulla costa, pochi gradi a sinistra della mia destinazione.
E così sia. Harry aveva sempre avuto ragione e aveva ragione anche adesso. Nessun coinvolgimento emotivo, aveva detto. Dunque, non ne avrei avuti.
Avrei aiutato Deb.
5
Il mattino dopo pioveva e il traffico era impazzito, come sempre a Miami quando piove. Qualche automobilista rallentava sulle strade sdrucciolevoli, facendo infuriare gli altri, che premevano sui clacson, urlavano dai finestrini e li superavano agitando i pugni.
Sulla rampa ascendente di LeJeune un grosso camion del latte, accelerando sulla corsia di sorpasso, era finito addosso al bus di una scuola cattolica e si era ribaltato. Cinque ragazzine in gonnellina scozzese di lana se ne stavano sedute in una pozza di latte, con lo sguardo sperduto. Il traffico era rimasto bloccato quasi per un’ora. Una ragazzina era stata portata in elicottero al Jackson Hospital, mentre le sue compagne erano rimaste sedute in mezzo al latte, a guardare gli adulti che si accapigliavano tra loro.
Io procedevo placido a passo d’uomo, ascoltando la radio. Apparentemente, la polizia era sulla pista del Macellaio della Tamiami Trail. Non trapelavano notizie, ma il capitano Matthews risultava molto convincente: si sarebbe detto che avrebbe proceduto personalmente all’arresto, appena finita la sua tazza di caffè.
Lasciato finalmente il sovrappasso, aumentai di poco la velocità. Mi fermai a una tavola calda non lontano dall’aeroporto per comprare una frittella di mele e una ciambella, anche se la frittella era già finita prima che risalissi in macchina. Ho un metabolismo molto alto. Succede quando si conduce una vita equilibrata.
Quando arrivai al lavoro aveva smesso di piovere. Il sole era tornato a brillare e il vapore si sollevava dall’asfalto. Entrai nell’atrio, esibii il mio tesserino e andai di sopra.
Deb era già lì ad aspettarmi.
Quella mattina non sembrava di buon umore. Non che lo sembri molto di frequente. Dopotutto è una poliziotta e, come la maggior parte dei suoi colleghi, proprio non ci riesce. Troppo tempo in servizio a cercare di non mostrare umanità. Non riescono più a togliersi quell’espressione dalla faccia.
«Deb», dissi, appoggiando sulla scrivania il dolce nel sacchettino bianco.
«Dov’eri ieri notte?» mi chiese, in tono amaro, come avevo previsto. Presto quell’espressione accigliata sarebbe divenuta permanente, guastando un viso splendido: profondi occhi blu, vividi di intelligenza, un nasino all’insù con una spruzzata di lentiggini, una cornice di capelli neri. Bei lineamenti, ricoperti da tre chili di make-up da quattro soldi.
La guardai con affetto. Arrivava chiaramente dal lavoro: oggi indossava un reggiseno di pizzo, short rosa shocking di spandex e scarpe dorate a tacco alto. «Lascia perdere. Dov’eri tu, piuttosto?»