— Lin Dze, della Kabuki Intrasolar — disse a sua volta Lindsay. — Sono un impresario teatrale.
— Cos’è… una specie di diplomatico?
— Talvolta, Vostra Eccellenza.
Il Presidente annuì. Il Presidente della Camera tornò ad ammonirlo: — Non fidarti di lui, signor Presidente.
— È il ramo esecutivo ad occuparsi dei rapporti con l’estero, così chiudi quella tua fottuta bocca — ringhiò il Presidente. — Ascolta, cittadino, è stata una giornata dura. In questo momento dovremmo essere nella Banca a darci una lavata, forse a farci una bevuta, ma questi fascisti ci hanno bersagliato con quell’affare terra-aria, un attacco preventivo, capisci? Così, adesso la nostra aeronave è bruciata e abbiamo perso la nostra fottuta roccia.
— Un vero peccato — fu d’accordo Lindsay.
Il Presidente si grattò il collo. — Non si possono proprio fare progetti in questo genere d’affari. Impari a prenderla come viene. — Esitò. — Andiamocene via da questo fetore, comunque. Forse c’è del bottino là dentro.
Il Presidente della Camera tirò fuori una sega portatile elettrica da una sua fondina di rete rossa, e cominciò a segare la parete della cupola. Il calafataggio fra i vari pannelli di plastica andava facilmente in polvere. — Devi entrare dalla parte più inaspettata se vuoi continuare a vivere — gli spiegò il Presidente. — Mai entrare in una camera d’equilibrio del nemico. Non puoi mai sapere cosa c’è dentro. — Poi parlò in un apparecchio collegato al polso; usò un gergo operativo di copertura; Lindsay non riuscì a seguire le parole.
Insieme, i due pirati abbatterono con un calcio un pezzo di parete ormai quasi del tutto reciso dalla sega, ed entrarono. Lindsay li seguì, reggendo la telecamera. Rimisero al suo posto il pannello staccato, e la donna lo spruzzò di un fluido a presa rapida contenuto in una bomboletta.
Il Presidente si sfilò la maschera raffigurante un cranio e annusò l’aria. Aveva un naso rincagnato da pugile, un volto coperto di lentiggini; i capelli corti color zenzero erano radi, e la pelle del suo cranio luccicava stranamente. Erano entrati nella cucina comune dell’Ottavo Esercito Orbitale: c’erano cuscini e bassi tavoli, un forno a microonde, una cassa di proteine imballate nella plastica, una mezza dozzina di alte unità per la fermentazione che gorgogliavano rumorosamente. Una donna morta il cui viso appariva bruciato dal sole giaceva lunga distesa sul pavimento accanto alla porta.
— Bene — disse il Presidente. — Mangiamo. — Il Presidente della Camera si tolse a sua volta la maschera: il suo volto era ossuto, con due occhi obliqui carichi di sospetto. Un’eruzione cutanea, che all’aspetto pareva dolorosa, le punteggiava la mascella e il collo.
I due pirati entrarono furtivi nella stanza accanto. Questa fungeva nello stesso tempo da dormitorio e da centro di comando, con un banco di videoterminali che lampeggiavano ammucchiati al centro della stanza. Uno degli schermi stava seguendo una scena esterna a mezzo telefoto: mostrava un gruppo di nove pirati vestiti di rosso che si avvicinavano a piedi lungo il pendio settentrionale dello Zaibatsu, facendosi strada in mezzo alle rovine.
— Ecco che arrivano gli altri del nostro gruppo — disse il Presidente della Camera.
Il Presidente si guardò intorno. — Non è poi tanto male. Allora rimarremo qui. Per lo meno avremo un posto dove poter tenere dentro l’aria.
Qualcosa frusciò sotto una delle cuccette. Il Presidente della Camera si tuffò a capofitto sotto il letto. Lindsay ruotò la sua telecamera. Vi furono uno strillo acutissimo e una breve lotta; poi la donna emerse trascinando fuori un bambino. Il Presidente della Camera l’aveva immobilizzato con una complicata presa che comportava l’uso di una sola mano. Lo mise in piedi.
Era una creaturina sudicia, dai capelli scuri, lo sguardo furibondo, di sesso indeterminato. Indossava un’uniforme dell’Ottavo Esercito Orbitale adattata alle sue dimensioni. Gli mancava un dente. Pareva avesse circa cinque anni.
— Così, non sono morti tutti! — esclamò il Presidente. Si accovacciò e guardò il bambino negli occhi. — Dove sono gli altri?
Gli mostrò un coltello. La lama, che era parsa comparire dal nulla, lampeggiò nella sua mano. — Parla, cittadino! Altrimenti ti farò vedere le tue budella!
— Suvvia! — intervenne Lindsay. — Non è questo il modo di parlare a un bambino.
— A chi la vuoi dar da bere, cittadino? Ascolta, questo piccioncino potrebbe avere ottant’anni. Ci sono trattamenti endocrini…
Lindsay s’inginocchiò accanto al bimbetto e cercò di parlargli con gentilezza. — Quanti anni hai? Quattro? Cinque? Che lingua parli?
— Dimenticatene — intervenne il Presidente della Camera. — C’è soltanto una cuccetta di piccole dimensioni, la vedi? Immagino che gli aerei-spia l’abbiano mancato.
— O risparmiato — disse Lindsay.
Il Presidente rise scettico. — Sicuro, cittadino. Ascolta. Possiamo vendere quest’affare alla banca delle puttane. Dovrebbe valere qualche ora di attenzione per noi.
— È schiavismo — protestò Lindsay.
— Schiavismo? Di che cosa stai parlando? Non metterti a fare il teologo, cittadino. Io sto parlando di una entità nazionale che consegna un prigioniero di guerra, liberandolo, a un terzo partito. È una transazione commerciale perfettamente legale.
— Non voglio finire dalle puttane — pigolò tutt’a un tratto il bambino. — Voglio andare dai contadini.
— I contadini? — fece il Presidente. — Non vorrai fare il contadino, microcittadino? Hai mai avuto qualche addestramento nell’uso delle armi? Ci servirebbe un piccolo assassino capace di sgusciare attraverso i condotti d’aria…
— Non sottovalutate quei contadini — l’interruppe Lindsay. Indicò con un gesto uno degli schermi. Un gruppo di due dozzine di agricoltori aveva attraversato il pendio interno dello Zaibatsu. Stavano caricando i quattro orbitali morti su quattro slitte piatte, trainate da bardature applicate alle spalle.
— Maledizione! — imprecò il Presidente. — Volevo prendermeli io. — Esibì un sorriso di sciocco compiacimento. — Non posso biasimarli, immagino. C’è un sacco di ottime proteine in un cadavere.
— Voglio andare con i contadini — insistette il piccolo.
— Lasciatelo andare — intervenne Lindsay. — Io ho degli affari con la Banca Geisha. Potrei trattare un periodo di soggiorno per la vostra nazione.
Il Presidente della Camera lasciò andare il braccio del marmocchio. — Puoi farlo.
Lindsay annuì. — Datemi un paio di giorni per negoziare la cosa.
La donna lanciò un’occhiata al marito. — Questo va bene. Facciamolo Segretario di Stato.
La Banca Geisha era un complesso di edifici assai vecchi, resi stagni dalla gommalacca e collegati da un labirinto di corridoi di legno lucidato e camere d’equilibrio fatte con pareti scorrevoli di carta. Quell’area era stata un quartiere a luci rosse perfino prima del crollo dello Zaibatsu. La Banca era orgogliosa della propria eredità, e continuava le raffinate ed eccentriche tradizioni di quell’epoca più gentile.
Lindsay lasciò gli undici cittadini della Democrazia dei Minatori di Fortuna in un’antisettica camera adibita a sauna dove degli impassibili ragazzi-da-bagno provvedevano ai loro lavacri. I loro corpi ossuti erano coperti da grumi di muscoli dovuti al costante allenamento dello jujitsu in caduta libera. La loro pelle sudata era vivacizzata da spaventosi tatuaggi ed eruzioni cutanee infette.
Lindsay non si unì a loro. Entrò in uno spogliatoio rivestito di pannelli e consegnò la sua uniforme dei Medici Nefrini perché gliela lavassero e stirassero. S’infilò un morbido kimono bruno. Una geisha maschio di basso rango in kimono e obi gli si avvicinò. — Posso compiacerla, signore?