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L’aggressione chirurgica contro il suo corpo avrebbe trasformato una donna umana in un animale erotico dagli occhi vacui. Ma Kitsune era una Plasmatrice, dotata del genio e delle capacità di adattamento innaturali di un plasmatore, appunto. Il suo mondo angusto l’aveva trasformata in qualcosa di affilato e sgusciante, come uno stiletto oliato.

Aveva vissuto otto dei suoi vent’anni dentro la Banca dove trattava con i clienti e i rivali in termini che comprendeva completamente. Sapeva, però, che c’era un regno di esperienze mentali, dato per scontato dall’umanità, che le era familiare.

Vergogna. Orgoglio. Colpa. Amore. Avvertiva quelle emozioni come ombre vaghe, tenebrosa spazzatura ofidica ridotta in cenere in un istante da un’estasi cauterizzante. Non che fosse incapace di sentimenti umani, soltanto che questi erano troppo tenui perché lei riuscisse a notarli. Era diventato un secondo subconscio, uno strato sepolto, intuitivo, al di sotto del suo modo di pensare post-umano. La sua consapevolezza era un amalgama di logica freddamente pragmatica e di convulso piacere.

Kitsune sapeva che Lindsay era handicappato dal suo primitivo modo di pensare. Provava per lui una specie di pietà, un dolore compassionevole che non poteva riconoscere o ammettere a se stessa. Lei credeva che lui fosse molto vecchio, che appartenesse a una delle prime generazioni.di Plasmatori. La loro ingegneria genetica era stata limitata e si distinguevano a malapena dal ceppo umano originario.

Doveva avere quasi cent’anni. Essere così vecchio eppure apparire così giovane, significava che aveva scelto delle tecniche efficaci per l’estensione della vita. Risaliva a un’era prima che il plasmismo raggiungesse la sua piena espressione. I batteri sciamavano ancora attraverso il suo corpo. Kitsune non gli aveva mai parlato delle pillole e delle supposte di antibiotici che prendeva, o delle dolorose docce antisettiche. Non voleva che lui sapesse che la stava contaminando. Voleva che fra loro ogni cosa fosse pulita.

Aveva un gelido riguardo nei confronti di Lindsay. Lui rappresentava per lei una fonte di soddisfazione elevata, platonica. Aveva per lui l’artigianale rispetto che un macellaio poteva avere per un coltello di acciaio affilato. Kitsune traeva un piacere positivo nell’usarlo. Voleva che durasse a lungo, così si prendeva gran cura di lui, e godeva nel dargli ciò che riteneva gli servisse per continuare a funzionare.

Per Lindsay, le sue manifestazioni di affetto erano rovinose. Aprì gli occhi sul tatami e allungò subito la mano verso la valigetta diplomatica dietro la sua testa. Quando le sue dita si serrarono sopra la liscia maniglia di plastica, nella sua mente venne escluso il circuito dell’ansia, ma quel primo sollievo servì soltanto ad attivare altri sistemi e si ridestò completamente in preda ad una nauseante sensazione di allarme, pronto a battersi.

Vide che si trovava nella stanza di Kitsune. Il mattino stava spuntando sull’immagine del giardino morto da lungo tempo. Una falsa luce del giorno entrò obliqua nella stanza, riflettendosi sui comò intarsiati e sulla campana di perspex che proteggeva un bonsai fossilizzato. Una parte di lui, repressa, gli urlava dentro, in preda a una sorta di mite disperazione.

La ignorò. La sua nuova dieta di droghe aveva fatto riemergere col massimo vigore gli insegnamenti dei Plasmatori, e lui non era dell’umore giusto per tollerare le proprie debolezze. Era pieno di quella mistura d’irritabilità che si chiude come una trappola d’acciaio, e di lenta pazienza appagante, che lo conduceva ai più affilati cigli della percezione e della reazione.

Si rizzò a sedere e vide Kitsune alle tastiere. — Buongiorno — la salutò.

— Ciao, tesoro. Hai dormito bene?

Lindsay meditò un attimo. Un antisettico che lei usava gli aveva bruciacchiato la lingua. E aveva la schiena coperta di lividi là dove le dita di lei, plasmicamente rinforzate, gli erano affondate distrattamente nella carne. Avvertiva in gola un malaugurante raschiare: aveva passato troppo tempo all’aria aperta senza una maschera. — Mi sento benissimo — rispose sorridendo. Aprì la complessa serratura della sua valigetta diplomatica.

S’infilò gli anelli alle dita e si mise i calzoni hakama.

— Vuoi qualcosa da mangiare? — lei gli chiese.

— Non prima della mia iniezione.

— Allora dammi una mano a collegare la mia copertura — replicò Kitsune.

Lindsay represse un brivido. Odiava quel corpo rugoso, cyborgato, simile alla cera… in una parola, odiava la yarite, e Kitsune lo sapeva. Lo costringeva ad aiutarla in quell’operazione, poiché ciò rappresentava una misura del suo controllo su di lui.

Lindsay lo capiva, e voleva aiutarla; voleva ripagarla in una maniera che le fosse comprensibile, per il piacere che lei gli aveva dato.

Ma qualcosa in lui si ribellava a questo. Quando il suo addestramento vacillava, come capitava fra un’iniezione e l’altra, le emozioni represse sfociavano all’esterno e lui diveniva conscio della terribile tristezza del loro rapporto. Provava una specie di pietà per lei, un dolore compassionevole che non avrebbe mai confessato, per non insultarla. C’erano cose che avrebbe voluto darle: semplice compagnia, semplici fiducia e rispetto.

Semplice irrilevanza. Kitsune tirò fuori la yarite dalla sua culla biocontrollata, sotto le assi del pavimento. Sotto certi aspetti quella cosa aveva superato i limiti della morte clinica; talvolta dovevano farla entrare in funzione con grandi e reiterati sforzi, come mettere in moto a furia di spinte un motore riluttante.

La tecnologia della sua manutenzione era dello stesso tipo che supportava i cyborg mechanist dei Vecchi Radicali e dei Cartelli Mech: filtri e monitor gestivano il suo flusso sanguigno; le ghiandole e gli organi interni erano sotto il controllo del computer. Degli innesti erano disposti sul suo cuore o sul fegato, stimolandoli con elettrodi o ormoni. Il sistema nervoso autonomo si era da lungo tempo sfasciato e aveva cessato di funzionare.

Kitsune lesse alcune registrazioni e scosse la testa. — I livelli di acidità stanno salendo con la stessa rapidità delle nostre azioni, tesoro. Le spine inserite stanno degradando il suo cervello. È molto vecchio, tenuto insieme da fili e rabberciature.

La mise seduta su un tappeto steso sul pavimento e l’imboccò con cucchiaiate di pappa vitaminizzata.

— Dovresti assumere direttamente il controllo… da sola — lui disse. Inserì uno spinotto gocciolante in un condotto dell’avambraccio della yarite coperto da un groviglio di vene.

— Mi piacerebbe — lei disse. — Ma avrei dei problemi a sbarazzarmi di questa. Mi sarebbe difficile spiegare le prese sulla sua testa. Potrei coprirle con degli innesti di pelle, ma questo certo non ingannerebbe gli incaricati dell’autopsia… Il personale si aspetta che questa carcassa viva in eterno. Hanno speso parecchio per tenerla in piedi. Vorranno sapere perché è morta.

La yarite agitò convulsamente la lingua e lasciò sgocciolare la zuppa fuori dalla bocca. Kitsune sibilò, infastidita: — Schiaffeggiala.

Lindsay si passò una mano fra i capelli ancora scarmigliati dal sonno. — Non così presto — disse, implorante.

Kitsune non disse niente. Si limitò a raddrizzare la schiena e le spalle e atteggiò il suo viso a una maschera compassata. Lindsay fu subito sconfitto. Portò di scatto la mano all’indietro e la calò sul volto della cosa in uno schiaffo violento a dita aperte. Una macchia di colore comparve sulla guancia coriacea.

— Mostrami i suoi occhi — disse Kitsune. Lindsay afferrò le guance scarne della cosa tra il pollice e le altre dita e torse la testa così che incontrasse gli occhi di Kitsune. Con ripugnanza, Lindsay riconobbe un vago balenio di degradata coscienza sulla sua faccia.