C’era un continuo mormorio eccitato in un agitato sovrapporsi dei gerghi più diversi.
Lo spettacolo ebbe inizio. Lindsay osservò la folla. Qua e là la gente si prese a spintoni durante la fanfara iniziale, ma quando il dialogo cominciò, la folla si era già messa tranquilla. Lindsay ringraziò il cielo. Sentiva la mancanza della guardia del corpo costituita dai pirati di Fortuna.
I pirati avevano esaurito i loro obblighi nei suoi confronti e stavano preparando la loro nave per la partenza. Lindsay, comunque, si sentiva sicuro nel suo anonimato. Se lo spettacolo fosse risultato un disastroso insuccesso, sarebbe stato soltanto un cane solare fra tanti altri. Se tutto fosse andato bene, avrebbe potuto cambiarsi in tempo per rispondere agli applausi.
Nella prima scena del ratto, i pirati trafugarono la giovane fanciulla, il genio delle armi, interpretata da una delle più splendide ragazze di Kitsune. Il pubblico lanciò urla di piacere all’apparire delle nuvolette di fumo artificiale e degli sgargianti fiotti di falso sangue in caduta libera.
I lessico-computer sparsi per tutta la Bolla traducevano la sceneggiatura in una dozzina di lingue e dialetti. Pareva improbabile che quella folla poliglotta potesse afferrare il dialogo.
A Lindsay pareva un ingenuo polpettone, per di più maciullato dalla traduzione automatica. Ma loro ascoltavano rapiti.
Dopo un’ora, i primi tre atti erano finiti. Seguì un lungo intervallo, durante il quale il palcoscenico centrale venne oscurato. Delle grossolane quanto chiassose claques si erano formate spontaneamente in onore dei vari membri del cast, quando i diversi gruppi di pirati si erano messi a gridare i nomi degli appartenenti alla loro consorteria.
A Lindsay prudeva il naso. L’aria all’interno della bolla era stata sovraccaricata di ossigeno, per dare alla folla uno slancio superventilato. Suo malgrado, anche Lindsay provava una sensazione di esultanza. Quelle rauche grida di entusiasmo erano contagiose. La situazione si stava muovendo con una propria, autonoma dinamicità. Era sfuggita dalle sue mani.
Lindsay si spostò alla deriva verso la parete della bolla, dove alcuni intraprendenti coltivatori di ossigeno avevano messo su una bancarella in concessione.
I contadini, pur aggrappati con molto impaccio per i piedi agli appositi cappi, al telaio della bolla, stavano facendo affari d’oro. Stavano vendendo le loro delizie indigene: enormi pasticcini verdi appena fritti e croccanti, e degli spiedini di cubetti bianchi e grumosi che uscivano caldi caldi dai forni a microonde. Alla Kabuki Intrasolar andava una fetta degli incassi in quanto l’idea era stata di Lindsay. Ma i contadini erano stati felici di pagare, con azioni della Kabuki.
Lindsay aveva fatto molta attenzione con le azioni. Dapprima aveva avuto intenzione di gonfiare la loro quotazione oltre misura, mandando così in rovina i Medici Neri. Ma il miracoloso potere del denaro cartaceo l’aveva sedotto. Aveva aspettato troppo a lungo, così i Medici avevano venduto il proprio stock a investitori esterni, con un guadagno che si era rivelato irresistibile.
Adesso i Medici Neri erano al sicuro da lui… e gliene erano grati. Lo rispettavano con la più assoluta sincerità, e lo assillavano in continuazione per avere qualche altra soffiata sulla situazione del mercato.
Tutti erano felici. Prevedevano una lunga stagione per quello spettacolo. Dopo di ciò, pensava Lindsay, ci sarebbero stati altri piani, più grossi e migliori. Quel mondo di cani solari senza un proprio scopo preciso era perfetto per lui. Richiedeva soltanto che non si fermasse mai, che non si guardasse mai alle spalle, che non guardasse mai più in là del prossimo imbroglio.
A questo ci avrebbe pensato Kitsune. Gettò un’occhiata verso il palco dove lei si trovava e la vide galleggiare con carnivora mansuetudine dietro i funzionari più anziani della Banca, i suoi babbei.
Lei non gli avrebbe permesso nessun dubbio, nessun rincrescimento. In qualche oscura maniera, la cosa lo allettava. Con la sua illimitata ambizione a guidarlo, avrebbe evitato i propri conflitti interiori.
Aveva quel mondo in tasca. Ma al di sotto di quella inebriante sensazione di trionfo, un dolore debole ma persistente gli turbinava dentro. Sapeva che Kitsune era puramente e semplicemente implacabile. Ma Lindsay era come attraversato da una faglia, una saldatura dolorante là dove il suo addestramento incontrava l’altro se stesso. Adesso, nel suo miglior momento, quando voleva rilassarsi e provare una gioia onesta, ne veniva fuori bacato.
Tutt’intorno a lui la folla esultava. Eppure qualcosa dentro di lui lo tratteneva dall’unirsi a loro. Si sentiva ingannato, intralciato, derubato di qualcosa che non riusciva a stringere.
Tirò fuori il suo inalatore. Una buona zaffata chimica avrebbe dato fiato alla sua disciplina.
Sentì tirare da dietro il tessuto della sua tuta, alla sinistra. Gettò una rapida occhiata dietro la spalla.
Un giovane dinoccolato dai capelli neri gli aveva afferrato la tuta con le dita nude del piede destro. — Ehi, bersaglio — gli disse l’uomo. Aveva un sorriso gradevole. Lindsay osservò il volto dell’uomo, alla ricerca dei movimenti muscolari istintivi, e con un sussulto si rese conto che era il suo volto.
— Stai calmo, bersaglio — disse l’uomo. Lindsay udì la propria voce uscire dalla bocca dell’assassino.
Il volto era sottilmente sbagliato. La pelle era troppo pulita, troppo nuova. Sintetica.
Lindsay si girò di scatto. L’assassino si reggeva a un cavo di sostegno con entrambe le mani, ma allungò il piede sinistro e afferrò il polso di Lindsay fra le due dita più grosse. Il piede era rigonfio d’una anormale muscolatura e anche le articolazioni parevano alterate. La sua stretta era paralizzante.
Lindsay sentì che la mano gli si intorpidiva.
L’uomo colpì Lindsay al petto con l’alluce dell’altro piede. — Rilassati — gli disse. — Parliamo un po’.
L’addestramento di Lindsay riprese il sopravvento. L’ondata di adrenalina suscitata dal terrore si tramutò in un gelido autocontrollo.
— Ti piace lo spettacolo? — chiese.
L’altro scoppiò a ridere. Lindsay si rese conto che ora udiva la vera voce dell’assassino: la sua risata era raggelante. — Questi mondi ormeggiati alla Luna sono pieni di sorprese — disse.
— Avresti dovuto unirti al cast — replicò Lindsay. — Hai un vero talento per l’impersonificazione.
— Va e viene — disse l’assassino. Piegò leggermente la caviglia modificata, e le ossa del polso di Lindsay raschiarono le une sulle altre accompagnate da un improvviso dolore lancinante che gli oscurò la vista. — Cos’hai nella valigia, bersaglio? Qualcosa che vorrebbero conoscere là a casa?
— Al Consiglio dell’Anello?
— Proprio così. Dicono che ci hanno messo sotto assedio, tutte queste teste di cavo Mech, ma non tutti i cartelli sono schietti come l’ultimo. E noi siamo bene addestrati. Possiamo nasconderci sotto il più piccolo foruncolo di coscienza d’un borsaiolo.
— Scaltro — annuì Lindsay. — Ammiro sempre una buona tecnica. Forse possiamo organizzare qualcosa.
— Sarebbe interessante — replicò con cortesia l’assassino. A questo punto, Lindsay si rese conto che nessun tentativo di corruzione avrebbe potuto salvarlo da quell’uomo.
L’assassino lasciò il polso di Lindsay. Raggiunse la tasca della propria tuta con il piede sinistro e ve l’infilò. Il suo ginocchio e il suo fianco girarono in una maniera impossibile. — Questo è per te — disse. Liberò la cartuccia nera d’un videonastro. Questa roteò in caduta libera davanti agli occhi di Lindsay.
Lindsay prese la cartuccia e se la mise in tasca. Chiuse la tasca e sollevò di nuovo lo sguardo. L’assassino era scomparso. Al suo posto c’era un cane solare maschio corpulento, con addosso la stessa comunissima tuta bruno-grigiastra. Era più massiccio dell’assassino e i suoi capelli erano biondi.