Nel caso dello Zaibatsu del Popolo, la maggior parte della popolazione se n’era andata, ma una cocciuta minoranza aveva rifiutato la sconfitta.
Lindsay capiva. C’era grandezza in quella scontrosa e marcia desolazione.
I lenti turbini del vento erodevano il suolo gommoso, riversando lunghe appendici di terriccio marcio nell’aria crepuscolare. I pannelli di vetro illuminati dal sole erano rivestiti di sudiciume, un amalgama colloso di polvere e di muffa. In certi punti i pannelli erano stati spazzati via e sostituiti con tamponi improvvisati.
Faceva freddo. Con il vetro così sporco, così costellato di crepature, con la luce del giorno ridotta a una macchia crepuscolare, avrebbero dovuto energizzare quel posto ventiquattr’ore su ventiquattro unicamente per evitare che gelasse. La notte era troppo pericolosa; non si poteva rischiare: la notte non era permessa.
Senza peso, Lindsay fluttuò attraverso il ponte di atterraggio, raschiandolo. I velivoli erano ormeggiati al metallo graffiato con delle ventose. C’erano una dozzina di modelli a propulsione umana, in cattivo stato di manutenzione, e qualche ammaccato modello a propulsione elettrica.
Lindsay controllò i montanti di un antico apparecchio elettrico le cui ali di tessuto erano stampate con il disegno di una carpa giapponese. Possedeva dei pattini infangati per atterraggi in un campo gravitazionale. Lindsay raggiunse fluttuando la sella scheletrica dell’apparecchio, infilò nelle staffe le scarpe di tessuto e plastica.
Tirò fuori la carta di credito da una delle tasche che la sua tuta aveva sul petto. Il rettangolo di plastica nera bordato d’oro aveva un display delle ore di credito, a simboli rossi. La inserì in una fessura e il minuscolo motore cominciò a ronzare. Il velivolo decollò, e fu afferrato da una corrente discendente fino a quando non avvertì l’attrazione della forza di gravità. Lindsay si orientò sul terreno sottostante.
Alla sua sinistra, il pannello illuminato dalla luce del sole era stato ripulito a tratti. Una squadra di robot grumosi stava raschiando e lavando il vetro corroso. Lindsay diresse il muso dell’ultraleggero verso il basso per dare un’occhiata più da vicino. I robot erano bipodali e rozzamente progettati. D’un tratto Lindsay si rese conto che erano, in realtà, esseri umani con indosso tute e maschere antigas.
Colonne di luce solare penetravano attraverso le porzioni pulite del vetro, trafiggendo la penombra come tanti riflettori. Lindsay volò dentro una di queste, piroettò, e cavalcò la corrente ascensionale.
La luce illuminava il pannello di terreno sul lato opposto. Vicino al suo centro un grappolo di serbatoi punteggiava il paesaggio. I serbatoi traboccavano di un infuso verdastro limaccioso: alghe. L’ultima traccia di agricoltura che ancora rimaneva nello Zaibatsu era una fabbrica di ossigeno.
Scese ancora più in basso sopra i serbatoi. Grato, respirò quell’atmosfera arricchita. L’ombra del suo velivolo svolazzava sopra una giungla di condotti di raffinazione.
Quando tornò a guardare giù, scorse una seconda ombra dietro la sua. Svoltò bruscamente a destra.
L’ombra seguì il suo movimento con precisione cibernetica. Lindsay eseguì una rapida cabrata e si torse sul sedile per guardare dietro di sé.
Quando riuscì finalmente a vedere il suo inseguitore, rimase scosso nello scoprire quant’era vicino. Il suo camuffamento a chiazze grige e brune lo nascondeva perfettamente contro lo sfondo del cielo interiore fatto di grandi riquadri di terra in totale disfacimento. Era un velivolo addetto alla sorveglianza, un aereo senza pilota controllato a distanza.
Aveva ali piatte e quadrate e un propulsore posteriore insonorizzato dentro una cappottatura per i condotti di scarico.
Un bitorzoluto dispiegamento si sporgeva dal torso del velivolo robotico. I due tubi puntati contro di lui potevano essere telecamere con teleobbiettivi. Oppure potevano essere laser a raggi X. Regolato sull’alta frequenza, un laser a raggi X poteva carbonizzare l’interno di un corpo umano senza lasciare un solo segno sulla pelle. E i raggi X erano invisibili.
Questo pensiero lo riempì di paura e di un profondo disgusto. I mondi erano luoghi fragili, i quali contenevano aria e calore preziosi contro il nulla ostile dello spazio. La sicurezza dei mondi era la base universale della moralità. Le armi erano pericolose e ciò le rendeva spregevoli. In quel mondo di cani sciolti solari soltanto le armi potevano mantenere l’ordine, ma tuttavia lui provava un profondo e istintivo senso d’indignazione.
Lindsay volò dentro ad una nebbia giallastra che ribolliva e turbinava vicino all’asse dello Zaibatsu. Quando ne emerse, l’altro aereo era scomparso.
Non avrebbe mai saputo quando lo stavano sorvegliando. In qualunque momento dita invisibili potevano far scattare un interruttore e lui sarebbe precipitato.
La violenza dei suoi sentimenti lo sorprendeva. L’addestramento era filtrato via da lui a poco a poco. Dietro ai suoi occhi balenava l’incontrollabile immagine di Vera Kelland, che precipitava verso il basso, fracassandosi al suolo, le ali risplendenti del suo apparecchio che si accartocciavano all’istante dell’impatto…
Virò in direzione sud. Al di là dei pannelli in rovina vide un ampio anello d’un bianco puro, che cingeva il mondo. Poggiava contro la parete meridionale dello Zaibatsu.
Guardò dietro di sé. La parete settentrionale era concava, affollata di fabbriche e di depositi abbandonati. La spoglia parete meridionale era a strapiombo. Pareva fatta di mattoni.
Il terreno sotto di essa era un anello di bianche rocce cangianti che parevano essere state ammucchiate con un rastrello. Qua e là in mezzo a quel mare di sassi, simili ad isole buie, si elevavano macigni dalla forma enigmatica.
Lindsay eseguì una picchiata verso il basso per dare un’occhiata più da vicino. Una fila di tozzi bunker irti di armi nere ruotò visibilmente, seguendo i suoi movimenti con i sensibili musi bluastri. Si trovava ancora sopra la zona sterilizzata.
Si affrettò a riprender quota.
Un buco spiccava inequivocabile al centro della parete meridionale. Gli apparecchi di sorveglianza sciamavano come calabroni dentro e intorno ad esso. I suoi orli, dai quali si dipartivano cavi corazzati, erano irti di antenne per le microonde.
Non riusciva a vedere attraverso quel buco. C’era la metà del mondo al di là di quel buco, ma ai cani sciolti solari non era permesso neppure intravederla.
Lindsay planò verso il basso. I cavi dei montanti dell’ultra-leggero vibrarono rumorosamente per la tensione.
A nord, sulla seconda delle tre piattaforme di atterraggio dello Zaibatsu, vide il lavoro dei cani solari. I profughi avevano spogliato e demolito ampie fasce del settore industriale ed eretto rozze cupole a tenuta stagna, utilizzandone i rottami.
Le cupole andavano da piccole bolle di plastica gonfiata, a geodetiche multicolori calafatate, fino a un singolo, enorme emisfero isolato.
Lindsay girò in cerchio a distanza ravvicinata intorno alla cupola più grande. Una nera schiuma isolante copriva la sua superficie. Pietra lunare screziata corazzava il suo orlo inferiore. A differenza della maggior parte delle altre cupole non aveva antenne.
Lo riconobbe. Sapeva che sarebbe stato là.
Lindsay aveva paura. Chiuse gli occhi e fece appello al suo addestramento plasmico, la forza radicata in lui da dieci anni di disciplina psicotecnica.
Sentì la propria mente scivolare sottilmente nel suo secondo modo di essere consapevole. Il suo portamento si alterò, i movimenti divennero più fluidi, il cuore prese a battere più in fretta. Acquisì fiducia e sorrise. Sentì che la sua mente era più pronta, pulita, libera da inibizioni, pronta a guizzare e a manipolare. La paura e il senso di colpa oscillarono, esitanti, si deformarono e si dispersero, in un groviglio di cose irrilevanti.