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Per anni aveva lavorato per scavarsi una strada nell’ingannevole sottomondo delle azioni clandestine dei Plasmatori. Assassini e guardie del corpo (un tizio era spesso l’una e l’altra cosa insieme, poiché si specializzavano reciprocamente in ambedue i mestieri) erano diventati i suoi più intimi alleati.

Conosceva i loro sotterfugi, la loro fanatica lealtà. Lottava costantemente per guadagnarsi la loro fiducia. Offriva loro rifugio nella sua Repubblica, nascondendoli alle persecuzioni dei pacifisti. Usava liberamente il suo prestigio per portare avanti le loro persecuzioni militariste.

Alcuni plasmatori lo disprezzavano per i suoi geni non programmati; di molti altri si era guadagnato il rispetto. Gli odii personali non lo preoccupavano. Ma lo preoccupava la possibilità di venir tagliato fuori prima di essersi misurato contro il mondo. Prima di aver soddisfatto la smisurata ambizione che lo aveva spinto sin dall’infanzia.

Chi sapeva di Lindsay, il solo uomo che gli fosse mai stato amico? Quand’era stato più giovane e debole, prima che la blindatura della diffidenza si chiudesse ermeticamente intorno a lui, Lindsay era stato suo intimo amico. Chi aveva scatenato il suo fantasma, e a quale scopo?

Consiglio di Stato
di Goldreich-Tremaine
26-12-’46

Gli ospiti venuti al matrimonio circondavano il giardino. Dal suo nascondiglio dietro i rami d’una magnolia nana, Lindsay vide sua moglie che stava dirigendosi verso di lui con leggeri saltelli nella semigravità. Le fronde verdi sfiorarono le falde allargate della sua acconciatura. L’abito ufficiale di Nora era di un tessuto ocra con grani d’argento, le maniche aperte color ambra. — Stai bene, tesoro?

— Oh, dannazione! gli orli della mia manica… Stavo ballando e mi si è smagliata un’intera manica.

— Ho visto che ti allontanavi. Hai bisogno di aiuto?

— Posso farcela. — Lindsay stava lottando con la complessa trama. — Sono lento ma posso riuscirci.

— Lascia che ti aiuti. — Nora si portò al suo fianco, tirò fuori dei ferri da maglia incorporati nella sua acconciatura e smerlettò le sue maniche con una fluida destrezza che lui non avrebbe mai potuto sperare d’eguagliare.

Sospirò e, facendo attenzione, tornò a infilarsi i ferri fra le trecce. — Il Reggente ha chiesto di te — disse. — I genetici anziani sono qui. Nella barcaccia. Ho dovuto buttar fuori un’abbondante manciata di ragazzini. — Terminò di sistemare la manica. — Ecco fatto — disse. — Ti va bene?

— Sei meravigliosa.

— Niente baci, Abelard. Mi macchieresti il trucco. A festa finita… — Sorrise. — Hai un aspetto splendido.

Lindsay si passò la mano meccanica sopra i riccioli grigi. Le nocche d’acciaio scintillarono dei semi di gemma che vi erano incassati. I tendini di filo metallico sfavillavano dei fili di fibre ottiche ad essi intrecciati. Indossava un molto ufficiale soprapanciotto accademico della Kosmosity di Goldreich-Tremaine, il bavero era costellato di minuscole capocchie di spillo che indicavano il suo rango. I calzoncini lunghi fino al ginocchio erano d’un sontuoso bruno-caffè. Delle calze anch’esse brune alleggerivano la dignità dell’abito con un tocco d’iridescenza.

— Ho ballato con la sposa — disse. — Credo di averli un po’ sorpresi.

— Ho sentito le grida, caro. — Sorrise e gli prese il braccio, mettendogli la mano sulla spalla sopra l’acciaio del suo omero artificiale. Lasciarono il giardino.

Fuori, nel patio, lo sposo e la sposa stavano danzando sul soffitto, a testa in giù. I loro piedi sfrecciavano agili dentro e fuori della pista da ballo, un ampio complesso di cappi da piede imbottiti da usare in bassa gravità. Lindsay osservò la sposa, provando un impeto di felicità assai prossimo al dolore.

Kleo Mavrides: la giovane sposa era il clone della donna morta. Aveva in comune con lei il nome e i geni. C’erano momenti in cui Lindsay aveva l’impressione che dietro gli occhi allegri della Kleo più giovane si celasse uno spirito assai più vecchio, proprio come un suono poteva vibrare ancora in un cristallo quando la sorgente del suono si era immobilizzata. Lindsay aveva fatto tutto quello che poteva. Sin da quando la giovane Kleo era stata prodotta, si era preso cura di lei in maniera tutta speciale. Lui e Nora avevano trovato soddisfazione nel fare ammenda in quel modo. Era più di una semplice penitenza. E si erano dati troppa pena per chiamarla semplicemente una ricompensa. Era amore.

Lo sposo danzava con poderoso vigore. Aveva la corporatura da orso di tutti i genetici dei Vetterling. Fernand Vetterling era un uomo dotato, il quale risaltava perfino in una società di geni. Erano vent’anni che Lindsay conosceva quell’uomo, come commediografo, architetto, e membro della Congrega. Ancora oggi l’energia creativa dei Vetterling riempiva Lindsay d’una specie di meraviglia, perfino d’una sorta di ottusa paura. Quanto tempo sarebbe durato quel matrimonio, si chiese, fra Kleo, con le sue agili grazie, e il sobrio Vetterling, con una mente simile a un’ascia d’acciaio affilato? Era un matrimonio di stato, oltre che un accoppiamento d’amore. Molto capitale era stato investito in quell’operazione, economico e genetico.

Nora gli fece strada in mezzo a una folla di bambini che stavano sferzando dei vorticanti giroscopi per aumentarne la velocità con dei delicati frustini a treccia. Come al solito, Paolo Mavrides stava vincendo. Il suo volto di ragazzino di nove anni era illuminato da una concentrazione quasi soprannaturale. — Non toccare la mia ruota, Nora — disse.

— Paolo ha giocato d’azzardo — s’intromise Randa Vetterling, una muscolosa ragazzina di sei anni. Sorrise maliziosamente mostrando che le mancavano i denti davanti.

— Giocate bene — commentò Nora. — Non disturbate gli adulti.

Nel palco di Lindsay gli adulti genetici sedevano intorno a un tavolo intarsiato con al centro un oggetto d’arte degli investitori. Stavano conversando esclusivamente in Sguardi, una lingua che all’occhio non addestrato sarebbe parsa consistere interamente in occhiate in tralice. Lindsay, annuendo, lanciò un’occhiata sotto il tavolo. Due bambini erano accucciati là sotto, intenti a giocare in coppia con un lungo cappio di corda. Usando tutte e quattro le mani e le dita più grandi dei piedi, avevano formato un complicato intreccio di angoli. — Molto bello — commentò Lindsay. — Ma andate a giocare a ragnatela da qualche altra parte.

— D’accordo — replicò imbronciato il ragazzino più grande. Facendo attenzione a non guastare la loro struttura, raggiunsero strisciando sui calcagni e sulle dita dei piedi la porta aperta, tenendo allargate le dita delle mani avvolte nei fili.

— Gli ho dato delle caramelle — disse Dietrich Ross, quando i due bambini se ne furono andati. — Hanno detto che le avrebbero messe da parte per dopo. Hai mai sentito parlare di ragazzini di quell’età che mettono da parte le caramelle per dopo? Cosa diavolo sta succedendo a questo mondo?

Lindsay si sedette, aprendo uno specchio tascabile. Tirò fuori un cuscinetto da cipria dal taschino del panciotto.

— Sudi come un maiale — osservò Ross. — Non sei più l’uomo di un tempo, Mavrides.

— Avrai diritto di parlare quando ti sarai fatto quattro misure di ballo, Ross, vecchio imbroglione — fu pronto a replicare Lindsay.

— Margaret ha una nuova opinione sul tuo centrotavola — interloquì Charles Vetterling. L’ex reggente era proprio ridotto male, da quando aveva perso il posto: aveva un aspetto obeso e collerico, i suoi capelli tagliati secondo una foggia fuori moda erano chiazzati di bianco.

Lindsay provò un genuino interesse. — E qual è Cancelliere?

— Erotica. — Il cancelliere-generale Margaret Juliano si sporse sopra il tavolo intarsiato e indicò l’interno della cupola a pressione di perspex. Sotto la cupola c’era una complessa struttura. Le ipotesi avevano abbondato, sin dal primo momento in cui gli investitori l’avevano data a Lindsay.