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Il ventre squamoso si rinserrò, e due orli di nastro si aprirono alla base della massiccia coda del modello. Comparve una massa bianca, rotonda, con un luccichio di bagnato, un bolo oblungo di nastro strettamente avvolto: un uovo.

Fu un processo lento, doloroso. L’uovo era coriaceo: le contrazioni dell’ovidotto lo comprimevano, spingendolo in avanti. Finalmente fu libero, anche se era ancora collegato al corpo procreatore da un tratto di nastro trasparente. L’immagine del comandante-investitore ruotò, strascicandosi, poi si chinò ad esaminare l’uovo con un’intensità rapita, nauseata.

Lentamente allungò le enormi mani, raschiò l’uovo, si annusò le dita. La sua frangia cominciò a sollevarsi, irrigidita, inturgidita dal sangue. Le braccia le tremavano. Attaccò l’uovo. Ne morse selvaggiamente l’estremità più appuntita, penetrando come la lama di un coltello nel guscio coriaceo con quei denti malamente imitati. Comparve un nastro giallo, un tuorlo dalla consistenza simile a quella del formaggio fuso.

Il comandante banchettò, le braccia fatte di nastro ingiallirono a causa di quella viscida melma esplosa. La frangia sporse dietro la sua testa, irrigidita dal furore. La furtiva sgradevolezza del suo crimine era inequivocabile: valicava facilmente la barriera fra le specie, tanto quanto la ricchezza.

Lindsay mise via il suo monocolo. Il nastro, attirato dal suo movimento, slacciò la propria testa e si sollevò incerto. Lindsay agitò le braccia verso di lui e il modello si disfece di colpo in un groviglio. Lindsay si alzò in piedi e cominciò a trascinare il suo corpo avanti e indietro nella pesante gravità. Il nastro osservò, arrotolandosi e guizzando.

Cartello Dembowska
10-10-’53

Lindsay discese barcollando la rampa di accesso, i suoi guanti-piede ormai consumati, slittavano. Dopo la luce abbagliante a bordo della nave interstellare, l’area di sbarco gli parve fosca, subacquea. Fu colto da una sensazione di vertigine. Forse avrebbe potuto farcela in caduta libera, ma la debole gravità dell’asteroide di Dembowska gli scombussolava lo stomaco.

L’atrio conteneva un gran numero di viaggiatori provenienti dagli altri cartelli mechanist. Non aveva mai visto tanti Mech in un solo posto, e suo malgrado quello spettacolo lo allarmò. Davanti a lui, bagagli e passeggeri entravano nelle passatoie di controllo della dogana. Più oltre, alle loro spalle, s’intravedevano le vetrine dei duty-free-shop di Dembowska.

D’un tratto Lindsay rabbrividì. Non aveva mai sentito l’aria così fredda. Una corrente gelida filtrava attraverso la sua tuta sottile, e il tessuto flessibile dei suoi guanti-piede. Il suo alito si condensava in nuvole di vapore. Stordito, si diresse verso la dogana.

Una giovane donna lo aspettava subito davanti al posto di dogana, in rilassato equilibrio sulla punta di uno stivale. Indossava una calzamaglia scura e una giacca dal collo di pelliccia. — Capitano-dottore? — gli chiese.

Lindsay si arrestò con difficoltà, stringendo il tappeto con le dita dei piedi.

— La valigia, prego. — Lindsay porse la sua vecchia valigetta diplomatica, imbottita di dati rubacchiati dagli archivi di Kosmosity. La donna lo prese per un braccio con fare amichevole, guidandolo attraverso una porta anonima al di là degli analizzatori della dogana. — Sono la moglie-poliziotta Greta Beatty. Sono il suo ufficiale di collegamento. — Scesero una rampa di scale fino a un ufficio. Greta porse la valigetta a una donna in uniforme e ricevette in cambio una busta affrancata.

Quindi lo condusse fuori su un piano più basso della sezione duty-free, aprendo la busta con le unghie laccate. — Qui ci sono i suoi nuovi documenti — gli disse. Gli porse una carta di credito. — Adesso lei è il revisore Andrew Bela Milosz. Benvenuto al Cartello Dembowska.

— Grazie, moglie-poliziotta.

— Basterà Greta. Posso chiamarti Andrew?

— Chiamami Bela — disse Lindsay. — Chi ha scelto questo nome?

— I tuoi genitori. Andrew Milosz è morto di recente, nel Cartello Bettina. Ma non troverai la sua morte registrata negli archivi. Il suo parente più prossimo ha venduto la sua identità all’Harem della Polizia di Dembowska. Tutti i segni d’identificazione nelle sue registrazioni sono stati cancellati e sostituiti con i tuoi. Ufficialmente, sei immigrato qui. — Sorrise. — E io sono qui per aiutarti nella transazione. Per farti felice.

— Sto gelando — annunciò Lindsay.

— Ci occuperemo subito della cosa. — Lo condusse oltre il vetro smerigliato, dentro uno dei duty-free-shop, un negozio di abbigliamento. Quando riemersero, Lindsay aveva un nuovo completo, d’un tessuto imbottito più spesso, con marezzature verticali in rilievo inserite ai polsi e alle caviglie. Il colore era grigio carbonella e, di ottimo gusto, s’intonava ai suoi nuovi stivali di velcro imbottiti di pelliccia. Sfoggiava un microfono a bottone in uno dei risvolti color crema della giacca.

— Adesso tocca ai tuoi capelli — annunciò Greta Beatty. Portava la sua nuova borsa-guardaroba a cerniera. — Sono in condizioni orrende.

— Erano grigi — disse Lindsay. — Le radici sono cresciute nere, così li ho rasati. Da allora, sono cresciuti come hanno voluto. — La gratificò d’uno sguardo deciso.

— Vuoi conservare la barba?

— Sì.

— Qualunque cosa ti faccia felice.

Dopo dieci minuti sotto le mani del parrucchiere, i capelli di Lindsay erano pettinati all’indietro dalla fronte e dalle tempie in lisce curve brillantinate. La barba era stata leggermente spuntata.

Lindsay aveva osservato i movimenti muscolari della sua compagna. C’era una calma, una quiete nei suoi movimenti che tradiva la sua giovinezza. Lindsay si sentiva teso, ipersensibile, ma la naturale allegria di Greta cominciava ad avere effetto su di lui grazie alla contaminazione cinetica. Si scoprì a esibire un involontario sorriso.

— Hai fame?

— Sì.

— Andremo al Periscopio. Stai benissimo, Bela. Ti abituerai alla gravità di Dembowska in un batter d’occhio. Rimani vicino a me. — Avvolse il braccio intorno al suo. — Mi piace questo tuo vecchio braccio.

— Rimarrai con me?

— Tutto il tempo che vorrai.

— Capisco. E se dovessi suggerirti di andartene?

— Credi proprio che ti troveresti meglio?

Lindsay soppesò la cosa. — No, perdonami, moglie-poliziotta. — Si sentiva irascibile, oscuramente infastidito. La sua nuova identità lo preoccupava. Mai prima di allora gli era capitato che gliene imponessero una. Il suo vecchio addestramento lo spronava a integrarsi nella società locale, ma gli anni l’avevano reso più rigido.

Greta lo condusse giù per due rampe di scale mobili a staffa, che si addentravano nelle profondità dell’asteroide. Le pareti e il pavimento erano di metallo antico, consumato, rivestite di un nuovo strato di velcro. La gente si muoveva a salti che iniziavano maestosi e finivano in penose contorsioni. Sopra le loro teste dei cittadini frettolosi procedevano lanciandosi da un cappio all’altro del soffitto. Seguivano un vetusto dembowskiano che avanzava spedito lungo la parete sulla sua carrozzella da paralitico dalle ruote al velcro. — Mangeremo un boccone — disse Greta Beatty. — Ti sentirai molto meglio. Lindsay considerò la possibilità di imitare i suoi movimenti muscolari dell’espressione; per quanto arrugginito, pensava di poterci riuscire. Forse sarebbe stata la cosa più intelligente, accompagnare la naturale affabilità di Greta con la propria. Ma non voleva farlo. Gli faceva male.