Lo scorpione di mare aveva sollevato fuori dall’acqua il suo ampio prosoma simile ad una piastra; quell’avancorpo simile a un granchio aveva un diametro di mezzo metro. Dietro gli occhi compositi da singoli elementi a forma di losanga, c’era il lungo addome affusolato, ricoperto da placche sovrapposte disposte secondo creste orizzontali.
— È lungo tre metri — lo informò Greta, mentre un inserviente portava i primi piatti. — Più lungo, se conti anche la coda a pungiglione. Una bella dimensione per un invertebrato. Prendi un po’ di minestra?
— Voglio vedere. — Gli artigli protesi si stavano chiudendo sulla preda con la determinazione di una porta idraulica. D’un tratto la creatura-preda, tremolando, schizzò nell’aria e piombò nella piscina con un tonfo.
— Salta veloce! — osservò Lindsay.
— C’è soltanto una velocità per saltare. — Greta Beatty sorrise. — È una questione di fisica. Mangia qualcosa. Prendi una stecca di pane. — Lindsay non riusciva a staccare gli occhi dall’euripteroide, il quale giaceva con i suoi denti-artigli intrecciati, e all’apparenza esausto. — Provo pietà per quella creatura — dichiarò.
Greta si mostrò paziente. — È arrivato qui sotto forma di uovo. Non ha ricevuto quelle grandi stecche di pane da mangiare. Carnassus si prende cura di loro. Era l’esobiologo dell’ambasciata.
Lindsay assaggiò un po’ di minestra con il cucchiaio da bassa gravità, una sorta di piccola scodella chiusa, dal coperchio scorrevole. — Tu sembri condividere la sua esperienza.
— Tutti a Dembowska sono interessati nell’extraterrario. Orgoglio locale. Naturalmente il commercio turistico non è quello di un tempo, da quando la Pace degli Investitori è finita. Ci rifacciamo con i profughi.
Lindsay fissò di malumore la piscina. Il cibo era eccellente ma l’appetito gli era venuto meno. L’euripteroide fece un debole movimento. Lindsay pensò alla scultura che gli investitori gli avevano dato e si chiese a cosa potessero assomigliare i suoi escrementi.
Uno scroscio di risate arrivò dal tavolo di Wells. — Voglio parlare con Wells — disse Lindsay.
— Lascia che me ne occupi io — replicò Greta. — Wells ha contatti con i Plasmatori. L’informazione potrebbe filtrare fino al Consiglio dell’Anello. — La sua espressione divenne grave. — Non vorrai certo rischiare la tua copertura prima che sia stata ben consolidata.
— Non ti fidi di Wells?
Greta scrollò le spalle. — Non sei tu che devi preoccupartene. — Arrivò una nuova pietanza, portata da un cigolante robot dai piedi in velcro. — Adoro questi antichi servorobot che impiegano qui. E tu? — Spremette una densa salsa cremosa sopra un pasticcio di carne e gli passò il piatto. — Sei sotto pressione, Bela. Ti serve cibo. Sonno. Una sauna. Le buone cose della vita. Sembri nervoso. Rilassati.
— Vivo sull’orlo di un precipizio — dichiarò Lindsay.
— Non adesso. Tu vivi con me. Mangia qualcosa, così saprò che ti senti sicuro.
Per farle piacere Lindsay, sia pure riluttante, diede un morso al pasticcio. Era delizioso. L’appetito gli ritornò come un’onda di marea. — Ho delle cose da fare — disse, soffocando lo stimolo d’inghiottire tutto come un lupo.
— Pensi che riuscirai a farle meglio senza cibo né sonno?
— Suppongo che tu abbia ragione. — Sollevò lo sguardo; lei gli porse la bolla della salsa. Mentre spremeva altra salsa sul suo piatto, lei gli passò un bicchiere di vino munito d’una fessura unidirezionale per bere. — Prova il Chiaretto locale. — Lui l’assaggiò. Era buono almeno quanto il Synchronis d’annata degli Anelli. — Qualcuno ha rubato questa tecnologia — osservò.
— Tu non sei il primo disertore. Adesso qui le cose sono più calme.
Indicò qualcosa fuori della finestra. — Guarda lo xifosurano. — Un granchio grumoso si stava muovendo attraverso la piscina con una pigrizia snervante. — Ha una lezione da darti.
Lindsay fissò la scena in silenzio, riflettendo.
L’alloggio di Greta si trovava sette livelli più in basso. Un servorobot della casa, placcato d’argento, prese la borsa-guardaroba di Lindsay. Il soggiorno di Greta ostentava un divano barocco rivestito di pelliccia con staffe scorrevoli e due poltrone ancorate, rivestite di velluto color borgogna. Su un tavolo da caffè adesivo c’era un inalatore con il coperchio a scatto e una rastrelliera di cassette.
Il bagno aveva uno scomparto adibito a sauna e uno sciacquone ribaltabile a suzione con l’orlo elastico riscaldato. Le lampade sovrastanti ardevano rosate a causa dell’infrarosso generato dal calore. In piedi sulle piastrelle gelide Lindsay lasciò cadere il suo guanto. Cadde lentamente secondo un’inclinazione accentuata. Le verticali della stanza non si accoppiavano con la gravità locale. Quel tocco accentuato di design interno d’avanguardia causò a Lindsay un improvviso attacco di nausea. Balzò in alto e si aggrappò al soffitto, chiudendosi gli occhi fino a quando l’attacco di vertigini non gli passò.
Greta gridò attraverso la porta: — Vuoi una sauna?
— Qualunque cosa pur di riscaldarmi.
— I comandi sono sulla sinistra.
Lindsay si spogliò cacciando un rantolo quando il metallo ghiacciato del braccio artificiale gli sfiorò le costole nude. Tenne il braccio ben lontano dal corpo mentre entrava dentro il vapore turbinante. Nella bassa gravità, l’aria era piena di acqua vorticante. Tossendo, cercò a tentoni la maschera respiratoria. Era ossigeno puro. Nel giro di pochi istanti si sentì un eroe. Girò i comandi avventatamente, ricacciandosi in gola un urlo, mordendosi la lingua, quando venne mitragliato da una raffica improvvisa di neve in polvere. Arretrò con una contorsione e si lasciò cuocere dal calore umido, poi uscì. La sauna continuò il suo ciclo fino al punto d’ebollizione, autosterilizzandosi.
Con l’asciugamano richiuse in un turbante i capelli umidi, annodando le sue estremità con fare assente in uno svolazzo nello stile Goldreich-Tremaine. Nell’armadio trovò un pigiama della sua misura: era d’un sontuoso azzurro con calzari rivestiti di pelliccia.
Fuori, Greta si era tolta la giacca di pelliccia e la calzamaglia, e si era infilata una vestaglia imbottita con un colletto scampanato. Per la prima volta, Lindsay osservò i suoi avambracci, massicciamente ricoperti d’impianti mechanist. Il braccio destro ospitava una specie di arma: una serie di tubi paralleli montati sopra il polso. Non c’era nessun segno di un grilletto. Probabilmente funzionava per interazione nervosa. All’interno dell’altra manica colse il rosso tremolio dei sensori d’un biomonitor.
I Mech coltivavano un fanatico interesse per il biofeedback. Rientrava nella maggior parte dei programmi mech della longevità. Lui non aveva pensato a Greta come a una mechanist. Suo malgrado, quella vista lo scosse.
— Non hai sonno?
Lui sbadigliò. — Un po’.
Lei sollevò il braccio destro sopra la testa, con fare assente. Un comando a distanza schizzò attraverso la stanza finendo nella sua mano e Greta accese la videoparete. Mostrava una veduta dall’alto dell’extraterrario, presa tramite uno dei monitor del palazzo di Carnassus.
Lindsay la raggiunse sul divano ficcando i suoi calzari nelle staffe riscaldate. — Non quello — disse, rabbrividendo. Greta toccò un pulsante. La videoparete divenne confusa, poi si ridefinì nella superficie di Saturno, in un’ampia strisciata rosso e ambra. Fu colto da un’ondata di nostalgia. Girò lo sguardo in un’altra direzione.
Greta cambiò scena. Comparve un paesaggio impervio; enormi crateri accanto ad un’area devastata, scagliosa, tagliata da due giganteschi crepacci. — Questo è erotismo — disse. — La pelle ingrandita ventimila volte. Una delle mie scene preferite. — Toccò nuovamente il pulsante e il video sfrecciò sopra quel sinistro paesaggio, soffermandosi accanto alla radice d’una gigantesca trave squamosa. — Vedi quelle cupole?