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— Sì. L’ho filmato io stesso.

— Ahhh. — Il gemito echeggiò di pura sensualità. Uno dei giganteschi cuori della stanza si trovava sotto il letto; le sue pulsazioni accelerarono. — È la loro regina, il loro capitano. Oh, queste femmine degli investitori e le loro regole dell’Harem… che piacere batterne una. Creatura sporcacciona. Oh, che gioia sei, Lin Dze, Mavrides, Milosz.

Lindsay disse: — Il mio nome è Abelard Malcolm Tyler Lindsay.

— Lo so. Constantine me l’ha detto. Ed io l’ho convinto che eri morto.

— Grazie, Kitsune.

— Che significato hanno i nomi per noi? Mi chiamano il Capo della Polizia. È il controllo quello che conta, tesoro, non la facciata. Tu hai ingannato i Plasmatori del Consiglio dell’Anello. I Mechanist sono stati la mia preda. Mi sono trasferita ai Cartelli. Ho osservato, ho aspettato. Poi un giorno ho trovato Carnassus, l’ultimo sopravvissuto della sua missione.

Fece una lieve risata, la risata acuta, saltellante, che un tempo aveva conosciuto così bene. — I Mechanist hanno mandato fuori quanto di meglio avevano. Ma erano troppo forti, troppo rigidi, troppo fragili. La stranezza della cosa li ha infranti, e anche l’isolamento. Carnassus ha dovuto uccidere gli altri due, e si sveglia ancora gridando a causa di questo. Sì. Perfino in questa stanza. La sua compagnia aveva fatto bancarotta. Io ho comperato lui e tutto il suo strano bottino, pescando nel relitto.

— Negli Anelli dicono che è lui, a governare qui.

— Certo che lo dicono: è quello che gli ho detto io. Carnassus appartiene a me. I miei chirurghi ci hanno lavorato sopra. Non c’è un solo neurone in lui che non sia stato distrutto dal piacere. Per lui la vita è semplice: un costante sogno di carne.

Lindsay si guardò attorno. — E tu sei la sua favorita.

— Pensi che tollererei qualcos’altro, tesoro?

— Non t’importa che le altre mogli pratichino lo Zen Serotonina?

— Non m’importa quello che pensano o sostengono di pensare. Obbediscono a me. Non m’interessa l’ideologia. Quello che m’interessa è il futuro.

— Oh.

— Verrà il giorno, quando avremo spremuto tutto quello che potevamo da Carnassus. E i prodotti crionici perderanno la loro patina di novità a mano a mano che la tecnologia si diffonderà.

— Potrebbero volerci molti anni.

— Per ogni cosa ci vogliono anni — replicò lei. — Ed è una questione di anni. La nave con la quale sei arrivato ha lasciato lo spazio circumsolare.

— Ne sei sicura? — chiese Lindsay, afflitto.

— È quello che mi dicono i miei banchi-dati. Chissà quando ritorneranno.

— Non ha importanza. Posso aspettare.

— Vent’anni? Trenta?

— Qualunque tempo ci voglia — disse Lindsay, anche se si sentiva soffocare da questo pensiero.

— A quel punto, Carnassus sarà diventato inutile. Avrò bisogno di una nuova facciata. E cosa potrebbe esserci di meglio di una Regina degli Investitori? È un rischio che vale la pena di correre. Ci lavorerete per me, tu e Wells.

— Naturalmente, Kitsune.

— Avrai tutto l’appoggio che ti serve, ma non sprecare un solo kilowatt cercando di salvare quella donna.

— Cercherò di pensare soltanto al futuro.

— Carnassus ed io avremo bisogno d’una casa-sicura. Quella sarà la nostra priorità.

— Contaci — fece Lindsay. “Carnassus e io” pensò

Cartello Dembowska
14-2-’58

Lindsay studiò gli ultimi documenti comparsi sulla rivista del comitato dei pari. Scorse le pagine dei dati con occhio esperto, divorando gli estratti, schermo-scansionando i singoli paragrafi, mettendo in risalto i peggiori eccessi del gergo tecnico. Lavorava con efficienza, spinto dall’entusiasmo.

Il merito andava a Wells. Wells l’aveva piazzato nel dipartimento della presidenza della Kosmosity. Wells gli aveva affidato la redazione del Giornale degli Studi Exoarcosauriani. La routine si era impadronita di Lindsay. Aveva accolto con piacere le distrazioni dell’amministrazione e della ricerca, che lo derubavano degli agi necessari per soffrire. Dentro il suo ufficio nel Crepaccio, in un exborgo della Kosmosity completato di recente, si spostava sulla sua sedia girevole a bassa gravità, dando la caccia alle voci, adulando, corrompendo, scambiando informazioni. Già il Giornale era diventato la più grande banca-dati sugli investitori non coperta da segreto, e intorno ai suoi “file” riservati crescevano come funghi le congetture e lo spionaggio. Lindsay era al centro, lavorando con l’energia di un giovane e la pazienza dell’età.

Nei cinque anni trascorsi dall’arrivo di Lindsay su Dembowska, aveva visto Wells diventare sempre più forte. In assenza di una ideologia di stato, l’influenza di Wells e della sua Congrega del Carbonio si era diffusa a tutta la colonia, inglobando l’arte, i media e la vita accademica.

L’ambizione era un vizio endemico fra Wells e quelli del suo gruppo. Lindsay si era unito alla Congrega senza troppo entusiasmo. Vicino a loro, comunque, era rimasto contagiato dai loro progetti come se fossero batteri locali. E anche dalla loro moda: i suoi capelli erano lisci e brillantinati, e i suoi baffi intagliati così da far posto a un microfono adesivo da labbro grande come un chicco. Portava anelli per il controllo video alle dita raggrinzite della mano sinistra.

Il lavoro divorava gli anni. Una volta il tempo gli era parso concreto, denso come il piombo. Adesso, scivolava via tra le sue mani. Lindsay si accorgeva che la sua percezione del tempo stava lentamente arrivando a uguagliare quella dei plasmatori anziani che aveva conosciuto a Goldreich-Tremaine. Per quelli davvero vecchi, il tempo era sottile come l’aria, un vento tagliente e distruttivo che cancellava il loro passato e aggrediva i loro ricordi. Il tempo stava accelerando. Per lui, niente avrebbe potuto rallentarlo se non la morte. Sentiva il sapore della verità, ed era amaro come l’anfetamina.

Riportò la sua attenzione sul documento. La rivalutazione d’un celebrato frammento di squama d’investitore trovato fra i resti d’una fallita ambasciata mechanist interstellare. Pochi frammenti di materia erano mai stati esaminati in maniera tanto esauriente. Il documento, “Gradienti Prossimi e Remoti nell’Adesività Epidermica della CeUula”, veniva da un plasmatore disertore nel Cartello Diotima.

La sua scrivania suonò. Il suo visitatore era arrivato.

I discreti servizi di sorveglianza nell’ufficio di Lindsay mostravano il tocco caratteristico di Wells. Al visitatore era stata data un’elegante coroncina, evolutasi dalla assai più sgraziata morsa-assassina. Una minuscola luce rossa, non visibile all’ospite stesso, brillava sulla fronte dell’uomo. Indicava un punto potenziale d’impatto per le armi opportunamente nascoste nel soffitto.

— Professor Milosz? — L’abito del visitatore era strano: indossava un bianco vestito di foggia ufficiale, con un colletto aperto a forma di anello e gomiti e ginocchi a fisarmonica.

— Lei è il dottor Morrissey? Della Concatenazione?

— Della Repubblica del Mare della Serenità — rispose l’uomo. — Mi manda il dottor Pongpianskul.

— Pongpianskul è morto — disse Lìndsay.

— Così dicono. — Morrissey annuì. — Ucciso per ordine del Presidente Constantine. Ma il dottore aveva amici nella Repubblica: tanti amici che ora è lui a controllare la nazione. Il suo titolo è Custode, e la nazione è rinata come Repubblica Culturale Neotecnica. Io sono l’Araldo della Rivoluzione. — Esitò. — Forse dovrei lasciare che sia il dottor Pongpianskul a raccontarlo.

Lindsay era stupefatto. — Forse dovrebbe farlo.

L’uomo esibì una videotavoletta e la collegò alla sua valigetta. Porse a Lindsay la tavoletta, che si animò con un guizzo. Mostrava un volto: quello di Pongpianskul. Pongpianskul si spazzolò le trecce, scarmigliandole con le mani coriacee e rugose. — Abelard, come stai?