Cominciò fra gli attori. Il primo attore indicava, sopra le teste del pubblico, il palco di Constantine, gridando con forza verso il resto del cast. Una delle donne cominciò ad applaudire. Poi l’applauso si diffuse: tutto il cast stava applaudendo, i loro volti erano illuminati. Vetterling li sentì alle sue spalle e si voltò a guardare. Afferrò subito la situazione, e un rigido sorriso si allargò sul suo volto. Puntò il dito in un gesto drammatico. — Constantine! — urlò. — Signori e Signore, il Cancelliere Generale!
Constantine si alzò in piedi, stringendo la balaustra di ferro dietro allo scudo trasparente. Quando lo videro, la folla esplose, un maelstrom in caduta libera di grida e applausi. Sapevano che era il suo trionfo. La gioia della cosa li sopraffaceva, la breve brillante liberazione dalla buia tensione della guerra. Se lui avesse fallito, l’avrebbero cacciato e ucciso con la stessa passione. Ma quella oscura cognizione era stata infranta dalla vittoria. Giacché aveva vinto, adesso il rischio che aveva corso serviva soltanto ad acuire la sua delizia.
Si girò verso sua moglie. I suoi occhi traboccavano di lacrime d’orgoglio. Lentamente, senza lasciare la balaustra, tese le mani verso di lei. Quando le loro dita si toccarono, lesse sul suo viso e vide la verità. Da quella sera in avanti il suo dominio su di lei sarebbe stato totale.
Lei prese posto accanto a lui. Vera lo tirò per la manica, gli occhi spalancati. La sollevò cullandola nel braccio sinistro. Le sfiorò le orecchie con le labbra.
— Ricordalo — le bisbigliò con forza.
Le grida anarchiche si spensero mentre un altro ritmo si diffondeva… era il ritmo dell’applauso, il lungo, rituale applauso cadenzato che seguiva ogni sessione dello stesso Consiglio dell’Anello, un applauso senza tempo, solenne, avvolgente, che non tollerava nessun dissenso. La musica del potere. Constantine sollevò la mano della propria moglie sopra le loro teste e chiuse gli occhi.
Era il momento più felice di tutta la sua vita.
Lindsay stava suonando le tastiere per esercitare il suo nuovo braccio. Questo era assai più progredito di quello vecchio, e la sottile discriminazione dei suoi segnali nervosi lo confondeva. Mentre suonava la composizione, una di quelle di Kitsune, sentì ciascun tasto ticchettare verso il basso con una breve sensazione ovattata d’intenso calore.
Si riposò, sfregandosi le mani. Una sensazione di prurito, come quello prodotto da tante punte di spillo, gli correva lungo i cavi. La nuova mano era crivellata di sensori uso-polpastrelli. Reagivano in maniera assai più efficace dei cuscinetti a retroazione del suo vecchio braccio.
Il cambiamento l’aveva irritato. Guardò intorno a sé il suo appartamento desolato. In ventidue anni era stato per lui soltanto un posto in cui accamparsi. Lo stile dell’appartamento, con la carta da parati a coste e le seggiole scheletriche, era datato di almeno vent’anni. Soltanto i sistemi di sicurezza, gli ultimissimi di Wells, avevano un tocco alla moda.
Lindsay stesso era diventato stantio. A novant’anni i solchi segnavano i suoi occhi e la sua bocca, a causa di decenni di espressione abituale. I capelli e la barba erano spruzzati di grigio.
Stava improvvisando, alla tastiera. Aveva affrontato il problema della musica nella sua solita inumana fermezza. Per anni aveva lavorato duramente per uccidersi, ma le moderne tecniche di biomonitoraggio prevedevano ogni singolo guasto imminente, prevenendolo molto prima del tempo. Il letto si occupava di ciò, alimentandolo con lampeggiamenti sotterranei di sogni intensi che ogni mattina lo lasciavano svuotato, ma in perfetta salute mentale.
Erano passati diciotto anni da quando sua moglie si era risposata. Il dolore di questo evento non l’aveva mai completamente lasciato. Aveva conosciuto brevemente, nel Consiglio, il suo attuale marito, Graham Everett, uno sbiadito detentista con importanti collegamenti di clan. Nora aveva usato l’influenza di Everett per parare gli attacchi dei militanti. Era triste: Lindsay non ricordava abbastanza bene quell’uomo da riuscire a odiarlo.
I segnali di allarme interruppero la sua suonata. Qualcuno era arrivato nel suo atrio d’ingresso. I sensori gli assicuravano che il visitatore, una donna, portava addosso soltanto degli innocui impianti mechanist: microrobot arteriali raschiaplacche, rotule in teflon di vecchio tipo, nocche di plastica, un dotto poroso per la droga nel cavo del gomito sinistro. La maggior parte dei suoi capelli erano artificiali, fili impiantati di lucide fibre ottiche.
Fece scortare la donna fin dentro la sua stanza dal servorobot della sua casa. La donna aveva la strana carnagione comune a molte altre donne mechanist: una pelle liscia, senza difetti come una maschera di carta perfettamente sagomata. I suoi capelli rossi erano venati di sprazzi ramati di luce che scaturivano dalle fibre ottiche. Indossava un vestito grigio, senza maniche, un panciotto di pelliccia, e guanti termici bianchi lunghi fino al gomito. — Revisore Milosz?
Aveva un accento della Concatenazione. La fece accomodare sul divano. Si sedette con grazia. Ogni suo movimento era affinato dall’età fino ad arrivare a un’assoluta precisione. — Sì, Madame. Cosa posso fare per lei?
— Mi perdoni l’intrusione, Revisore. Mi chiamo Tyler, sono impiegata alla Limonov Crionici. Ma il motivo per cui sono venuta qui è personale. Sono venuta a chiedere il suo aiuto. Ho sentito parlare della sua amicizia con Neville Pongpianskul.
— Lei è Alexandrina Tyler. — Lindsay se n’era reso conto a voce alta. — Dal Mare della Serenità. La Repubblica.
Lei parve sorpresa e sollevò le sopracciglia sottili, arcuate. — Lei conosce già il mio caso, Revisore?
— Lei… — Lindsay si sedette sulla poltrona a staffe — … forse gradisce qualcosa da bere. — Era la sua prima moglie. Da qualche livello profondamente sepolto sentì agitarsi, di riflesso, una persona morta da lungo tempo, lo strato friabile di falsi movimenti istintivi che aveva posto fra loro durante il matrimonio. Alexandrina Tyler, sua moglie, la cugina di sua madre.
— No, grazie — lei disse. Si aggiustò il tessuto sopra il ginocchio; si era fatta inserire il teflon quand’era ancora nella Repubblica.
Quel gesto familiare portò a galla i ricordi: la politica matrimoniale degli aristocratici della Repubblica. Era stata più vecchia di lui di cinquant’anni, il loro matrimonio una rete soffocante di cortesia piena di tensione e cupa ribellione. Adesso Lindsay aveva novant’anni, più vecchio di quanto fosse stata lei al momento del loro matrimonio. Da una nuova prospettiva che si abbatté su di lui come un’ondata, poteva assaporare il dolore da lungo tempo dimenticato che le aveva causato.
— Sono nata nella Repubblica — lei riprese. — Ho perso la mia cittadinanza durante le epurazioni dei Plasmatori, quasi cinquant’anni fa. Amavo la Repubblica, Revisore. Non l’ho mai dimenticata… Io, venivo da una delle famiglie privilegiate, ma ho pensato, forse adesso, dal momento che il nuovo regime instaurato laggiù si è stabilizzato, certamente tutta quella è acqua passata, no?
— Lei era la moglie di Abelard Lindsay.
I suoi occhi si spalancarono. — Dunque lei conosce il mio caso. Sa che ho fatto domanda di emigrare. Non ho ricevuto nessuna risposta dal governo di Pongpianskul. Sono venuta a chiedere il suo aiuto, Revisore. Non sono un membro della sua Congrega del Carbonio, ma conosco il suo potere. Avete un’influenza che aggira le leggi.