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L’Arena stessa era un minuscolo dodecaedro grosso come un pugno, i suoi lati triangolari erano di un nero così lucido da irradiare deboli sfumature pastello. Dei fili uscivano da prese incassate nel metallo, ai due poli opposti della struttura. I fili conducevano a due caschi muniti di grossi occhiali con estensioni flessibili per il collo. I caschi avevano l’aspetto schematico e pratico dei manufatti mechanist.

Constantine vinse il sorteggio e scelse il casco di destra. Tirò fuori una losanga piatta e curva di plastica beige dalla sua giacca ornata di fili dorati e agganciò una fibbia elastica ai suoi cappi d’ancoraggio. — Un analizzatore spaziale — spiegò. — Una delle mie routine operative. Permesso?

— Sì. — Lindsay tirò fuori dal taschino una striscia color carne coperta di dischi adesivi uncinati. — PDKL-95 — disse. — A dosi di duecento microgrammi.

Constantine lo fissò. — Un dissociatore. Dei cataclisti?

— No — disse Lindsay. — Questo faceva parte dello stock di Michael Carnassus. È una produzione originale mechanist, destinata alle ambasciate. Interessato?

— No — replicò Constantine. Pareva scosso. — Protesto. Sono venuto qui per combattere Abelard Lindsay, non una personalità dissociata.

— Questo ha ben poca importanza adesso, vero? Questo duello è all’ultimo sangue, Constantine. La mia umanità finirebbe soltanto per intralciarmi.

Constantine scrollò le spalle. — Allora vincerò io, non importa cosa userai.

Constantine agganciò l’analizzatore spaziale, adattando le sue curve fatte su misura alla propria nuca. I suoi microstimolatori scivolarono senza difficoltà dentro le prese collegate con il suo emisfero destro. Usandolo, lo spazio avrebbe assunto una concretezza fantastica, i movimenti si sarebbero manifestati con sovrumana chiarezza. Constantine sollevò il casco e intravide per un attimo la propria manica. Lindsay lo vide esitare, studiare la complessa topologia dell’intreccio del tessuto. Parve affascinato. Poi ebbe un breve brivido e infilò la testa dentro il casco.

Lindsay premette la prima microdose dentro il proprio polso e s’infilò a sua volta il casco. Sentì le cuspidi oculari adesive stringersi alle sue occhiaie, poi un’ondata di torpore mentre l’anestesia locale faceva effetto e dei filamenti irrigiditi di biogel scivolavano sopra i suoi bulbi oculari per penetrargli i nervi ottici.

Sentì un debole echeggiare. Mentre altri filamenti, strisciando, gli superavano i timpani entrando in contatto chemiotattico predeterminato con i suoi neuroni.

Giacquero entrambi, distesi, sui rispettivi letti d’acqua, aspettando che le unità disposte intorno al collo del casco filtrassero attraverso i microfori pretrapanati fin dentro la settima vertebra cervicale.

I microfili crebbero, allungandosi, senza causare danni, aprendosi la strada attraverso i rivestimenti mielinici degli assoni spinali, formando un reticolo gelatinoso capace di auto-replicarsi.

Lindsay galleggiò tranquillo. Il PDKL stava prendendo il sopravvento.

Mentre l’interruzione spinale procedeva, sentì il suo corpo dissolversi come cera, ogni gruppo sensorio muscolare trasmetteva un ultimo, caldo bagliore di sensazioni, a mano a mano che l’unità applicata al collo l’interrompeva, un ultimo palpito di umanità, troppo sottile per poterlo definire dolore. Il dissociatore lo aiutava a dimenticare. Trasformando ogni cosa in una novità, intendeva derubare ogni cosa della novità. Frantumando i preconcetti, esaltava la capacità di comprensione in maniera così drastica che intere filosofie intuitive emergevano in superficie ribollendo da un singolo attimo d’introspezione.

Faceva buio. Aveva in bocca un sapore di ragnatele. Avvertì una breve ondata di vertigine e terrore prima che il dissociatore la facesse abortire, lasciandolo improvvisamente arenato in un’emotiva terra di nessuno dove la sua paura si trasmutava bizzarramente in una schiacciante sensazione di peso fisico.

Era rannicchiato alla base di un muro titanico. Davanti a lui, un fioco bagliore s’irradiava da un arco colossale. Accanto a lui delle balaustre sporgenti di gelida pietra erano avvolte in sottili ragnatele di cavi afflosciati ricoperti di polvere. Allungò la mano per toccare il muro e osservò con apatica sorpresa che il suo braccio si era trasmutato in un artiglio. Il braccio era articolato in una pallida armatura dotata di due gomiti.

Cominciò a strisciare su per il muro. La gravità lo accompagnava. Guardando intorno a sé in quella nuova prospettiva vide che i ponti si erano trasformati in colonne ricurve, i cappi di cavi cascanti adesso erano diventati rigidi archi maligni. Ogni cosa era vecchia. Qualcosa dietro i suoi occhi si stava aprendo. Poteva vedere il tempo stendersi sul mondo come un luccichio, una macchia confusa di movimento congelato tagliata fuori dal contesto e dipinta sulla superficie della fredda pietra come gommalacca aliena. I muri divennero pavimenti, le balaustre gelide barricate. Allora si rese conto di avere troppe gambe. C’erano gambe là dove avrebbero dovuto esserci le costole e la sensazione formicolante che avvertiva nello stomaco era qualcosa di fin troppo concreto: la sensazione che le sue budella venissero trasmutate nel movimento d’un ulteriore paio di arti.

Lottò per guardare se stesso: non riusciva a flettersi in avanti, ma la sua schiena s’inarcò con fantastica facilità e i suoi occhi privi di palpebre fissarono le piastre corazzate coperte da uno spesso strato di pelliccia intersegmentale. Un paio di organi rugosi si sporgevano all’infuori dalla sua schiena all’estremità di peduncoli. Sfregò il proprio muso contro di essi, e d’un tratto, con una sensazione di vertigine, sentì l’odore del giallo. Allora tentò di urlare. Ma non aveva niente con cui urlare.

Ripiombò pesantemente all’indietro contro la fredda roccia. L’istinto ebbe il sopravvento, e attraversò di corsa, a capofitto, acri di pietra porosa e granulosa, verso la sicurezza dell’oscurità di un cornicione sporgente e una scacchiera di sbarre rose dalla ruggine, simile a una rastrelliera. Perse il senso delle proporzioni mentre se ne stava lì rannicchiato, vacillando sotto un’improvvisa, angosciante intuizione, e si rese conto di essere minuscolo, infinitesimale, rimpicciolito da quei titanici blocchi di pietra, ma dovevano anch’essi essere piccoli, talmente piccoli che…

Saggiò la pietra porosa raschiandovi sopra con l’estremità del suo artiglio anteriore flessibile. Era solida, d’una massiccia durevolezza che era sopravvissuta agli eoni indifferenti, tinta dalla sottile polvere di giganteschi, gementi macchinari, i quali avevano superato il punto di utilità con lo stesso esaurirsi degli ultimi granelli.

Poteva sentire l’odore dell’età, perfino percepirla come una specie di pressione, una sorta di paura. Era enorme, inamovibile, e lui d’un tratto pensò all’acqua. L’acqua che si muoveva ad alta velocità era dura come l’acciaio. Allora la sua mente partì a razzo, e pensò a questa reciproca identificazione di velocità e sostanza, all’energia cinetica degli atomi che dava forma alla pietra dura, una pietra che in realtà era spazio vuoto, vibrazioni, quanti. Divenne conscio dei più piccoli dettagli dentro la pietra, d’un tratto quella superficie non fu altro che fumo ghiacciato, una dura nebbia pietrificata da eoni imprigionati. Al di sotto della superficie, un livello ancora più sottile, un succedersi di dettagli in altri dettagli, via via, in un’ossessiva ragnatela in continua recessione.

Venne attaccato. Il nemico gli fu sopra. Sentì un’improvvisa, orrenda lacerazione quando gli artigli gli si conficcarono addosso dall’alto, il dolore alieno s’ingarbugliò nella traduzione da un sensorio all’altro, intasando il suo cervello di nera nausea e paura. Stramazzò pesantemente, in preda ad una mortale convulsione, il suo volto… il suo volto si spaccò in un’estrusione da incubo di mandibole affilate come rasoi, colse una gamba e la troncò all’articolazione; sentì l’odore di una rabbia e di un dolore roventi e la fulgida, incandescente radiosità dei propri succhi che esplodeva, e poi il gelo, lo sgocciolio, la scintilla luminosa che si spegneva per diventare un tutt’uno con l’antica pietra e l’età e il buio…