I microfoni esterni del suo casco colsero la voce di Constantine e la trasmisero ai suoi nervi: — Abelard.
La gola di Lindsay era piena di ruggine. — Ti ascolto.
— Sei vivo?
Il blocco nervoso del suo collo si era semidissolto, e sentì il proprio corpo privo di sostanza come gas caldo. Cercò a tentoni la striscia di dischi dermici accanto alla sua mano: al tatto la plastica perforata sembrò sottile come un nastro. Staccò un altro disco con le dita e lo premette in maniera scoordinata contro la base del suo pollice. — Dobbiamo provare di nuovo.
— Cos’hai visto, Abelard? Devo saperlo.
— Corridoi. Muri. Pietre scure.
— E abissi? Abissi neri di niente, più grandi di Dio?
— Non posso parlare. — La nuova dose stava facendo effetto, la lingua si stava sfaldando, un groviglio di supposizioni irrilevanti infrante da un dubbio improvviso, fasci di grammatica ridotti in polpa vischiosa sotto l’impatto della droga. — Di nuovo.
Era tornato, adesso poteva sentire il nemico, avvertire la sua presenza come un debole e lontano prurito. La luce era più chiara, enormi sciabolate radiose filtravano attraverso i massi di pietra talmente marciti per l’età da essere sottili come un tessuto. Si passò meticolosamente l’estremità degli artigli sui palpi intorno alla sua bocca, ripulendoli dall’umido sudiciume. Provò una sensazione di fame così intensa che le squame parvero saldarsi le une alle altre, e si rese conto che lo stimolo a vivere e a uccidere era enorme almeno quanto le volte di pietra intorno a lui.
Trovò il nemico accosciato dentro un cul-de-sac fra un ponte impietosamente fatiscente e le sue travature di sostegno. Sentì l’odore della paura.
La posizione del nemico era sbagliata. Si teneva aggrappato alla parete in una falsa prospettiva, poiché percepiva l’interminabile orizzonte come un abisso di frantumazione. L’abisso sottostante era eterno, un caos di pareti, camere, pianerottoli, che si autoreplicavano, costruiti dal nulla, una terrificante ramificazione dell’infinito.
Attaccò, mordendo in profondità le placche dorsali. Il sapore di quella calda trasudazione lo mandò in delirio. Il nemico colpì a sua volta, affondando, spingendo, pallidi artigli graffiavano la roccia. Le sue fauci si staccarono dal dorso del nemico, strappando e lacerando. Il nemico lottò per spingerlo via, per ricacciarlo indietro dentro l’orizzonte. Per un momento fu colto dalla prospettiva stessa del nemico. Seppe d’un tratto che, se fosse caduto, sarebbe caduto per sempre. Nell’abisso, precipitando dentro il proprio terrore e la propria sconfitta, senza fine, attraverso quel labirinto autorotante, la mente pietrificata in un’angoscia senza confini, un dedalo d’interminabile esperienza, interminabile paura, d’implacabili muri, corridoi, gradini, rampe, cripte, volte, passaggi, sempre gelidi, sempre fuori della sua portata.
Scivolò indietro. Il nemico era disperato, cercava convulsamente di riprendersi, galvanizzato dal dolore. I suoi stessi artigli stavano scivolando. La pietra lo respingeva, diventava più liscia. D’un tratto ci fu uno spiraglio, e vide il mondo per quello che era. Allora i suoi artigli scivolarono dentro, con una facilità da fantasma, e la pietra slittò da parte come fumo.
Poi si trovò ancorato. Il nemico lo spingeva impotente, inutilmente. Assaporò l’improvviso fiotto di disperazione quando il nemico si voltò per fuggire.
Subito l’agguantò e lo bloccò, lacerandolo. Un miasma di polvere e di terrore esplose dalle carni del nemico. Lo strappò dal muro, lo serrò fra gli artigli in preda ad un orgasmo di odio e di vittoria… e lo scagliò dentro l’abisso.
PARTE TERZA
Muoversi in clade
8
I sogni erano piacevoli: sogni di calore e di luce, la vita di un animale, un eterno presente.
La coscienza tornò, accompagnata da un formicolante dolore, come del sangue che affluisse dentro una gamba da tempo intorpidita. Lottò per riunificare se stesso, per assumersi il fardello di essere di nuovo Lindsay, e il dolore del procedimento lo spinse ad artigliare l’erba, schizzando di terriccio la sua pelle nuda.
Il caos ruggiva tutt’intorno a lui: la realtà nella sua forma più grezza, una confusione ronzante, accecante. Giacque supino sull’erba, ansando. Sopra di lui il mondo tornò a fuoco: una luce verde e bianca, una bruna cornice di rami. La concretezza si riappropriò del mondo. Vide un virgulto vivo di foglie intrecciate e ramoscelli: una forma d’una bellezza talmente fantastica che fu sopraffatto dalla meraviglia. Si sollevò e scivolò verso il tronco ruvido dell’albero, trascinando le sue carni nude in mezzo all’erba liscia. Buttò le braccia intorno all’albero e appoggiò la guancia barbuta contro la corteccia.
Fu colto dall’estasi. Premette il viso contro l’albero, singhiozzando in preda al delirio, lacerato da una profonda trance visionaria.
A mano a mano che la sua mente si riorganizzava, cominciò a essere assalito da intuizioni, entrando lentamente in simbiosi con quell’essere vivente.
Una gioia inarrestabile lo pervase quando si unì alla sua serena integrazione.
Quando gridò per chiedere aiuto, due giovani plasmatori che indossavano la bianca uniforme ospedaliera risposero alle sue grida. Prendendolo per le braccia, lo aiutarono ad attraversare barcollando il prato e a superare l’ingresso di pietra della clinica.
Lindsay aveva la lingua bloccata. I suoi pensieri erano limpidi, ma le parole non volevano venire. Riconobbe l’edificio: era la dimora dei Tyler. Era di nuovo nella Repubblica. Avrebbe voluto parlare agli infermieri, chieder loro come aveva fatto a tornarci, ma il cervello non riusciva a rimescolare ordinatamente il suo vocabolario. Sulla punta della sua lingua le parole aspettavano angosciosamente di venir pronunciate.
Lo condussero attraverso un atrio pieno di modelli e di reperti racchiusi nel vetro. L’ala sinistra della dimora con la sua serie di camere da letto, era stata spogliata, ridotta al puro legno lucido, e poi riempita di attrezzature mediche. Lindsay fissò impotente il volto dell’uomo alla sua sinistra. Aveva la grazia sciolta di un plasmatore e gli occhi concentrati e attenti di un superintelligente.
— Lei è… — esplose d’un tratto Lindsay.
— Rilassati, amico. Sei al sicuro. Il dottore sta per arrivare. — Sorridendo, vestì Lindsay d’un camice dalle ampie maniche, allacciandoglielo dietro le spalle in un tranquillo agitare di nodi. Lo fecero sedere sotto un analizzatore cerebrale. Il secondo infermiere gli porse un inalatore.
— Annusa questo, cugino. È glucosio tracciante. Radioattivo. Per l’analizzatore. — Il superintelligente diede un affettuoso buffetto alla cupola del macchinario. — Dobbiamo esaminarti. Voglio dire, dritto fin nel nucleo.
Obbediente, Lindsay inspirò l’aerosol. Aveva, appunto, un odore dolce. L’analizzatore si calò ronzando lungo il binario del suo supporto verticale, sistemandoglisi intorno alla sommità del cranio.
Una donna entrò nella stanza. Aveva con sé uno strumento racchiuso in un astuccio di legno e indossava un ampio camice medico, una gonna corta e stivali di plastica infangati.
— Ha parlato? — chiese la donna.
Lindsay riconobbe la linea genetica. — Juliano — compitò con difficoltà.