Si rivolse a Margaret: — Il mio addestramento, i muscoli… i movimenti…
Margaret Juliano annuì: — Sì, quando siamo intervenuti ne abbiamo osservato i resti. Condizionamento psicotecnico dei Plasmatori dei primissimi tempi. Molto grezzo a paragone dei livelli d’oggi. Così, nel corso degli anni, l’abbiamo braccato, estinguendolo a poco a poco.
— Vuoi dire, l’addestramento… non c’è più?
— Oh, sì. Abbiamo avuto già abbastanza da fare a districarci con la tua dicotomia cerebrale senza dover affrontare anche il duplice modo di pensare dovuto al tuo addestramento: “L’ipocrisia come secondo stato di coscienza”… e tutto il resto. — Inspirò rumorosamente col naso. — È stata una cattiva idea sin dall’inizio.
Lindsay tornò ad accasciarsi sul sedile sotto l’analizzatore. — Ma per tutta la mia vita… E adesso me l’hai tolto. Con la fec… — Chiuse gli occhi, lottando per afferrare la pronuncia giusta. — Con la tecnologia.
Margaret prese un altro cioccolatino. — E allora? — chiese con voce quasi incomprensibile, ruminando. — È stata la tecnologia a metterlo là, per cominciare. Hai riavuto te stesso… cos’altro vuoi?
Alexandrina Tyler arrivò attraverso la porta aperta con un frusciare di pesante tessuto. Ostentava gli addobbi della sua adolescenza: una gonna rigonfia lunga fino al pavimento, e una giacca rigida color crema con spinotti e prese ricamati e una gorgiera rotonda che le cerchiava il collo. Guardò il pavimento.
— Margaret — disse. — I tuoi piedi.
Margaret Juliano guardò con aria distratta il fango secco che si scrostava dai suoi stivali. — Oh, cielo. Scusa.
L’improvvisa contrapposizione delle due donne colmò Lindsay d’una sensazione di vertigine. Un’ondata confusa d’un dejà vu scalibrato emerse gorgogliando da qualche drogato recesso cerebrale, e per qualche istante pensò che sarebbe svenuto. Quando si riprese, sentì di aver migliorato le sue condizioni, come se una melma paralizzante fosse sgocciolata fuori dalla sua testa, lasciandovi luce e spazio. — Alexandria — disse, sentendosi più debole ma per qualche motivo più reale. — Sei stata tempo. Tutto questo qui.
— Abelard — esclamò lei sorpresa. — Tu parli.
— Cercando di…
— Ho sentito che stai meglio — lei proseguì — così ti ho portato degli indumenti. Dal guardaroba del Museo. — Gli mostrò un vestito avvolto nella plastica, un campione di antichità. — Vedi? Questo è proprio uno dei tuoi vestiti di settantacinque anni fa. Uno dei predatori l’ha messo in salvo quando la dimora dei Lindsay è stata saccheggiata. Provalo, tesoro.
Lindsay toccò il tessuto rigido, logorato dal tempo, del vestito. — Un pezzo da museo — ripeté.
— Be’, naturalmente.
Margaret Juliano guardò Alexandrina. — Forse starebbe più comodo vestito da infermiere. Si fonderebbe con il paesaggio. Assumerebbe una colorazione locale.
— No — l’interruppe Lindsay. — Va bene. Lo indosserò.
— Alexandrina aspettava questo momento — gli confidò Margaret, mentre lui lottava per infilarsi i calzoni, spingendo a forza i piedi nudi oltre i ginocchi a fisarmonica irrigiditi dal filo metallico. — Ogni giorno è venuta a darti da mangiare le mele dei Tyler.
— Ti ho portato qui dopo il duello — disse Alexandrina. — Il nostro matrimonio è scaduto, ma adesso io dirigo il Museo. Ho un posto qui. — Sorrise. — Hanno saccheggiato i palazzi, ma i frutteti di famiglia sono ancora in piedi. La tua prozia Marietta ha sempre giurato sulla bontà delle mele di famiglia.
Quando Lindsay s’infilò la camicia, una cucitura sulla spalla cedette.
— Hai divorato quelle mele, buccia e tutto — aggiunse Margaret Juliano. — È stata una cosa meravigliosa.
— Sei a casa, Alexa. — disse Lindsay.
Era ciò che lei voleva sentire. Era contento per lei.
— Questa era la casa dei Tyler. L’ala sinistra e i terreni sono per la clinica, è opera di Margaret. Io sono il Curatore, io dirigo il resto. Ho raccolto tutti i ricordi del nostro vecchio modo di vita… tutto quello che è stato risparmiato dalle squadre di rieducazione di Constantine. — Lo aiutò a infilarsi da sopra la testa la giacca da cerimonia con il collo da tuta spaziale. — Vieni, ti faccio vedere.
Margaret Juliano scalciò via gli stivali e rimase con i suoi calzini spiegazzati. — Vengo anch’io. Voglio giudicare le sue reazioni.
La sala da ballo principale era diventata una sala per esposizioni, con bacheche e ritratti dei primi fondatori del clan. Un antico ultraleggero a pedali era appeso al soffitto. Cinque plasmatori contemplavano ammirati una bacheca piena di rozzi utensili da assemblaggio risalenti all’epoca della costruzione dei circumlunari. Gli indumenti chic dei plasmatori, concepiti per la bassa gravità, cadevano in modo grottesco a causa della forza centrifuga prodotta dalla rotazione della Repubblica. Alexandrina lo prese per un braccio e gli bisbigliò: — Il pavimento è carino, non è vero? L’ho rifinito io stessa, personalmente. Qui non ammettiamo robot.
Lindsay alzò gli occhi su una parete e rimase paralizzato alla vista del fondatore del suo clan, Malcolm Lindsay. Quand’era stato bambino, il volto del defunto pioniere, sogghignante con la sua ancestrale saggezza da sopra le cassepanche e gli scaffali, l’aveva sempre riempito di paura. Adesso si rese conto, con un doloroso tuffo introspettivo, di quanto giovane fosse stato quell’uomo. Morto a settant’anni. L’intero habitat era stato messo assieme, in fretta e furia, freneticamente, da persone che erano poco più che bambini. Cominciò a ridere istericamente. — È una barzelletta! — urlò. La risata gli stava sciogliendo la testa, frantumando un grosso ingorgo di pensieri in tanti piccoli spasimi insopportabilmente acuti.
Alexandrina fissò ansiosa gli sconcertati plasmatori: — Forse era troppo presto per lui, Margaret.
Margaret Juliano rise.
— Ha ragione, è una barzelletta. Chiedilo ai catastrofisti. — Afferrò il braccio di Lindsay. — Vieni, Abelard. Andiamo fuori.
— È una barzelletta — ripeté Lindsay. Adesso la sua lingua si era sciolta e le parole gli sgorgavano liberamente. — Questo è incredibile. Quei poveri sciocchi non avevano nessuna idea. Come potevano averne? Erano morti prima di avere la possibilità di vedere! Cosa sono per noi cinque anni, dieci, cento…
— Stai farneticando, tesoro. — Margaret Juliano lo condusse lungo il corridoio e attraverso l’arco di pietre cementate, fuori in mezzo all’erba e alla luce chiazzata del sole. — Attento a dove metti i piedi — gli disse ancora. — Abbiamo altri pazienti. Non abituati a vivere in casa.
Accanto agli alti muri incrostati di muschio una giovane donna nuda stava strappando l’erba con brevi gesti decisi, soffermandosi di tanto in tanto per succhiarsi il terriccio dalle dita.
Lindsay inorridì. Gli parve di sentire il sapore del terriccio sulla propria lingua. — Andremo fuori dai terreni della clinica — disse Margaret. — Pongpianskul non avrà niente da ridire.
— Ti lascia rimanere qui, vero? Quella donna è una plasmatrice. Una cataclista. Pongpianskul aveva un debito verso i cataclisti. Ti prendi cura di loro per suo conto?
— Cerca di non parlare troppo, caro. Potresti danneggiare qualcosa. — Aprì il cancello di ferro. — Ai cataclisti piace star qui. C’è qualcosa nella vista che si gode.
— Oh, mio Dio — fece Lindsay.
La Repubblica era impazzita. Gli alberi sui terreni del Museo erano cresciuti formando degli archi che nascondevano tutto il panorama. Adesso incombeva tutt’intorno a lui, per un tratto di ben cinque chilometri, una sbalorditiva distesa di verdi e aggrovigliati crinali, tre lunghi pannelli, che ardevano di raggi generati dalla luce del sole che pareva riflessa da specchi.